Si sono stappate centinaia di bottiglie di prosecco all’annuncio, il 29 maggio, che la Commissione europea proporrà al Consiglio dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione europea, in calendario per il 27-28 giugno, di fare cessare la “procedura d’infrazione” per deficit eccessivo (ne restano in piedi numerose altre nei confronti del nostro Paese per materie che vanno dal pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione a vari aspetti della gestione delle “politiche comuni”). Era il caso di farlo? Dei numerosi commenti espressi in questi giorni, il più appropriato mi sembra sia stato quello di Stefano Zamagni: i vantaggi maggiori per l’Italia sono in termini di “reputazione”, vantaggi – ha aggiunto Zamagni – che si potranno toccare con mano solo tra almeno sei mesi. Dipendono, infatti, da come Governo e Parlamento leggeranno la decisione dell’Ue (sempre che, come probabile, a fine giugno il Consiglio accetti la raccomandazione della Commissione).



In effetti, sotto il profilo giuridico si può dare un’interpretazione più “benevola” al concetto di “equilibrio strutturale di bilancio”, ma resta l’obbligo di non superare un disavanzo contabile superiore al 3% del Pil, sempre che non si voglia cadere in una nuova “procedura d’infrazione per disavanzo eccessivo” con un’ancora maggiore perdita di faccia, ossia di reputazione L’artificio contabile di non includere nel computo i fondi di contropartita ai co-finanziamenti europei (su cui tanto si è fantasticato) significa non più di 6 miliardi di euro spalmati su sette anni – poco più del gettito, per un anno, dell’Imu sulla prima casa. Quindi, un volume di finanziamenti trascurabile.



Tuttavia, per il Governo Letta si apre una nuova fase nell’interazione con l’Ue. In primo luogo, occorre notare (lo hanno fatto pochissimi quotidiani italiani) che la raccomandazione della Commissione non riguarda solo l’Italia, ma anche Lettonia, Ungheria, Lituania e Romania, che Malta, uscita dalla procedura d’infrazione sei mesi fa, vi è già rientrata, che Spagna, Portogallo e ovviamente Grecia vi sono dentro. E anche la Francia e – quel che più conta- la Germania potrebbero finire tra le “pecore nere”, specialmente in quanto Parigi (che ha appena ottenuto un “rinvio” per mettere in ordine il proprio disavanzo) e Berlino (che ha varato il primo giugno un programma d’espansione della spesa pubblica) potrebbero trovarsi lontane dai parametri definiti nei trattati.



Tutto ciò implica che l’Ue – e in particolare l’eurozona- è in seria difficoltà con le proprie regole. Ciò non vuol dire che gli “azionisti di maggioranza” siano pronti a riscrivere i trattati – operazione che rischierebbe di provocare l’affossamento di quanto è stato faticosamente fatto negli ultimi vent’anni – prima di ricominciare a costruire. Ciò implica che è iniziato un complesso “gioco” su più tavoli. Sul tavolo europeo ciascun Paese (e le istituzioni europee) hanno come posta la propria reputazione (come efficacemente detto da Stefano Zamagni). Su quello interno, la propria “popolarità” con i propri elettorati. Il gioco è reso complicato dal fatto che non siamo alle prese con due giocatori che operano parallelamente su due tavoli (come negli esempi di “teoria dei giochi multipli” presentati nei manuali universitari), ma con almeno diciassette giocatori nazionali e tre distinti giocatori europei (Commissione, Bce e Consiglio nelle sue varie forme di Eurogruppo, Ecofin e assise dei Capi di Stato e di Governo), ciascuno alle prese con differenti problemi di reputazione e popolarità.

Inoltre, gran parte dei governi dell’eurozona è composto da coalizioni di soggetti politici o da soggetti politici divisi in correnti. Per ciascun soggetto politico (o corrente di soggetto politico) si pone il problema di popolarità con il proprio bacino elettorale e di reputazione (quanto meno di lealtà) nei confronti dei propri partner di governo. Analogamente, i giocatori europei sono alle prese con reputazione e popolarità tra di loro e con ciascuno degli Stati membri. È necessario, sotto il profilo analitico, un algoritmo molto, ma davvero molto, complicato per trovare un punto di equilibrio tale da massimizzare reputazione ed equilibrio di tutte la parti in causa nel rispetto dei vincoli dei trattati, di patti aggiuntivi come il Fiscal CompactSi tratterebbe, comunque, di un “equilibrio dinamico”, sempre sul punto di andare in frantumi .

Lasciamo gli aspetti tecnici ai matematici e agli esperti di “teoria dei giochi a più livelli”. Soffermiamoci sulla “finestra d’opportunità” per l’Italia e per il Governo Letta. È una finestra che, come sostenuto in sede più accademica, deriva dall’incertezza che, in certe condizioni, può essere vista come un bene pubblico che apre opzioni a chi le sa cogliere. Nell’aggrovigliato “poker” europeo, il Governo Letta può giungere a coniugare risanamento finanziario e sviluppo utilizzando, in lessico finanziario, un’opzione di flessibilità tale da aiutare le stesse istituzioni Ue portandole a negoziare (come sussurrato negli ultimi due Consigli Ue) accordi individuali con i singoli Stati membri su programmi di riassetto strutturale che per aumentare produttività, competitività e occupazione dei fattori produttivi prevedano anche temporanei superamenti dei vincoli nel quadro di politiche economiche concordate.

Se questo approccio venisse accettato non solo aumenterebbe la reputazione dell’Italia e di chi la governa, ma si trarrebbe l’intera Ue fuori da un complesso groviglio che minaccia di paralizzarla.