Qualcosa non va. È questo il sentimento di sottofondo che si percepisce da qualche tempo. E non mi riferisco alle ovvie considerazioni sullo scenario economico, soprattutto dei paesi del Sud Europa. Questa sensazione deriva piuttosto dalle soluzioni che si stanno adottando per tentare di uscire dal momento difficile. Si sta chiedendo alla democrazia di fare un passo indietro in nome di un interesse generale superiore (sic!). Ma superiore a che cosa? Le scelte economiche e gli indirizzi politici degli stati dovrebbero essere pensati, proposti e votati a maggioranza per poi divenire legge a beneficio dei cittadini. Negli ultimi due/tre anni, invece, abbiamo assistito a decisioni sovranazionali che hanno, di fatto, esautorato le scelte libere e democratiche dei singoli stati.



Bastino due esempi per tutti: la Grecia e l’Italia. In entrambi i casi, abbiamo assistito a un intervento deciso del Fondo monetario internazionale, della Banca centrale europea e della Commissione europea che hanno indicato in modo preciso e rigorosissimo il percorso da seguire. Ma hanno fatto anche di più. Pur non essendo organismi i cui membri vengono eletti, hanno deciso quali governi dovessero presiedere all’attuazione del programma, sostituendosi agli elettori dei due paesi. “La resa ai dettati dei mercati finanziari – sostiene Joseph Stiegliz ne Il prezzo della diseguaglianza – è più ampia e sottile di quella che si subisce da parte dell’Fmi, perché coinvolge non soltanto i paesi che si trovano sull’orlo del baratro, ma qualunque Paese debba raccogliere denaro sui mercati del capitale. Se il Paese in questione non fa quel che piace ai mercati, questi ultimi minacciano di abbassare le valutazioni (i rating), di riprendersi i soldi o di alzare i tassi di interesse. Di solito, le minacce funzionano e i mercati finanziari ottengono ciò che vogliono. Potrebbero essere indette nuove elezioni, ma, per come verrebbero presentate agli elettori, questi non avrebbero scelta negli ambiti a cui loro più importa, ossia i problemi dell’economia”.



Tutto questo significa che temi come democrazia, autodeterminazione, giustizia, pari opportunità e globalizzazione generano dei conflitti e si pongono spesso come alternativi gli uni agli altri. Abbiamo ancora tutti in mente le manifestazioni di piazza, gli scontri in Grecia dello scorso anno. Di fatto la politica del Paese era arrivata a sostenere la necessità di un referendum che ratificasse le decisioni “suggerite in sede europea”. In quella situazione i mercati testimoniarono il loro forte disappunto per una scelta del genere, nel timore che il piano deciso venisse rigettato. Ma allora torniamo a quanto dicevamo in apertura. A quel malessere di fondo. L’economia e i mercati contano più della democrazia? 



Quando un elettore sceglie il suo candidato e il suo partito lo fa (o lo dovrebbe fare) sulla base di un programma e di valori che non sono solo economici, ma anche morali e di impegno sociale. L’approccio che è sotto i nostri occhi tutti i giorni, invece, suggerisce una volontà opposta in cui l’interesse di pochi vale di più di quello della maggioranza. Stigliz sostiene che siamo nell’evidenza (almeno negli Stati Uniti, ma non solo) di come l’1% della popolazione negli ultimi anni abbia accresciuto privilegi, potere e ricchezze a danno del restante 99%.

Ma c’è di peggio. Questo 1% riesce, in virtù dei mezzi economici, politici e di comunicazione di cui dispone, a far credere al restante 99% che tutte le misure che vengono adottate vadano nella direzione dell’interesse generale, quando invece non fanno che accrescere solo e soltanto il potere di una esigua minoranza. “Il nostro Paese – diceva Teddy Roosvelt nel 1910 – non significa nulla se non significa il trionfo di una vera democrazia (…) di un sistema economico all’interno del quale  a ogni uomo saranno garantite le stesse opportunità di dimostrare il meglio di sé”. A queste belle parole, Barack Obama ha aggiunto il 6 dicembre 2011: “La disuguaglianza distorce anche la nostra democrazia. Dà una voce smisurata a pochi che possono permettersi di ingaggiare lobbisti costosi e finanziare in modo illimitato le campagne elettorali, correndo il rischio di svendere il nostro sistema al miglior offerente”. Ma allora, se non vogliamo davvero “svendere la democrazia”, forse occorre innanzitutto rispettarne le scelte. Forse occorre tornare a rispettare le volontà degli individui, le loro convinzioni e in ultima analisi le loro vite.

Si parla molto di Unione europea, di cosa potrebbe significare per paesi come Italia, Spagna e Grecia uscire dall’euro. Si parla anche, per contrasto, di un uscita dall’euro dei paesi del Nord Europa, quelli che sono i più fervidi sostenitori di una politica del rigore. Ma non si parla mai (o troppo poco) della necessità di affrontare il vero tema dell’Europa. Quello politico e culturale. Quello che dovrebbe portare a trovare valori, programmi e idee condivise che poi possano scaturire in una democrazia compiuta che prende decisioni a maggioranza.

La convivenza dei popoli e il rispetto reciproco non possono essere fondati su freddi parametri economici che non vengono fatti per la gente, ma sopra la gente, quando non addirittura contro. Abbiamo tutti bisogno di tornare a respirare un clima di fiducia e di certezza. La certezza che il proprio voto, le proprie convinzioni, le proprie idee abbiano un peso decisivo per costruire il futuro. Non esiste crisi economica al mondo che possa giustificare la messa in disparte del rispetto delle differenze e delle scelte. In passato, ogni volta che si è messa da parte la democrazia in nome di un presunto interesse superiore, i risultati sono stati catastrofici per tutto il mondo.

Ogni giorno ci chiediamo nel nostro Paese e in Europa quando ripartiremo. Forse dovremmo cominciare a domandarci da che cosa ripartire.

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