In questi giorni sono comparsi alcuni articoli interessanti sul tema di chi seleziona i manager delle aziende di Stato. In particolare, si critica la scelta di alcune specifiche società esterne invece di altre, discutendo circa la reale indipendenza dei consulenti che operano nel settore. Come professionista in tale ambito, dichiaro subito il mio conflitto d’interesse, ma non rinuncio a dare comunque un’opinione in merito, impegnandomi a mantenere la massima obiettività, per discutere un tema che porta a trattare più generalmente di lavoro.
Andiamo in ordine. Per quanto riguarda la scelta delle società non registro un reale dibattito su quali sono le caratteristiche migliori per svolgere una selezione e su quali siano gli skills desiderabili per svolgere al meglio tale compito. L’abitudine italiana, infatti, è di scegliere chi ha già referenze nel settore e nel migliore dei casi cercare un’alternanza di fornitori, cosa che peraltro mi sembra stia accadendo più frequentemente rispetto al passato. Il tema sarebbe quindi di ragionare veramente e in modo trasparente ed esplicito su cosa qualifica il miglior Head-hunter e su chi siano i più competenti, oltre a voler seriamente capire quando svolgono il loro compito al meglio e quando meno.
Sul tema dell’indipendenza c’è indubbiamente qualche nota dolente. Dalla mia esperienza, chi fa il mestiere dell’Head-hunter è in una posizione abbastanza debole, anche per quanto affermato al punto precedente, e difficilmente può permettersi di imporre ragionamenti o scelte, discostandosi dalle direttive imposte dal proprio “cliente”. Il cliente, nel caso delle aziende pubbliche, dovrebbe essere forse il cittadino, mentre il più delle volte è un manager, un “tecnico” o un politico che vuole meno problemi possibili, tentando al contempo di conservare il suo status.
Per avere quindi una maggiore indipendenza, bisognerebbe dare reale dignità e libertà di azione a un lavoro che, se svolto nelle condizioni migliori, garantisce un grande progresso per le aziende e le amministrazioni, ma se svolto in maniera superficiale o nell’ottica della convenienza, è solo un costo accessorio e una “foglia di fico”.
Nell’esperienza italiana si registra una certa dinamicità nei vertici delle grandi aziende, anche se non essendoci quasi mai obiettivi chiari, è difficile valutare la performance e i risultati al di là di casi eclatanti. I mali reali sono poi le tremende buonuscite pagate indipendentemente dai risultati, una sorveglianza minima sul comportamento dei manager e una certa trasmigrazione continua da società ad altre, come in silos indiscutibili.
Mi spiego. Se un Cacciatore di teste deve cercare un manager in Telecom Italia per portarlo in Poste Italiane non mi sembra svolga un ruolo strategico; diverso sarebbe se ci fosse una reale valutazione di profili anche più esterni, internazionali e “fuori dai giochi”.
Un altro problema riguarda invece i dirigenti a riporto dei vertici, quelli di seconda e terza fascia, per i quali si registra il problema della “foresta pietrificata” e della “giungla dei diritti”. Il tema della selezione per questi non è quasi mai affrontato con attenzione, ma vengono spesso “spostati” in cordate al seguito del manager di turno. Suggerirei quindi al dibattito pubblico di non focalizzarsi solo su quello che succede al vertice, ma di verificare cosa succede “sotto”: spesso è più decisivo e importante.
In particolare, si segnala come il diritto del lavoro soffocante e il tema della fiducia distrugge la possibilità di una gestione meritocratica dei dirigenti operativi e si registra, in particolare nella P.a., una situazione dannosa d’irresponsabilità e d’immobilità. Come cittadini e professionisti, non possiamo continuare a vedere una dirigenza folta e numerosa che non decide o gestisce un potere di posizione in modo inappropriato.
Considerato il costo enorme di questa struttura manageriale e l’enorme mole di risorse economiche e strategiche immobilizzate si capisce come gli impieghi per nuove iniziative e per l’occupazione giovanile sarebbero davvero abbondanti se solo si volesse veramente cambiare una situazione davvero intollerabile. I diritti di alcuni, sommandosi alla totale mancanza di tutela di altri, producono una situazione di disuguaglianza intollerabile oltre all’inefficienza e al danno economico. Il diritto al lavoro sancito dalla Costituzione è ormai un diritto alla conservazione di privilegi e di situazioni paradossali, calpestato nel caso di giovani e precari ma ancora fortissimo per dirigenti e manager.
Questo, insieme al controllo di alcuni paradossali diritti acquisiti – pensioni d’oro e rendite di posizione – dovrebbe essere l’obiettivo di un cambiamento sociale e culturale sempre più inevitabile. Le poche risorse impegnate dal Governo su questi temi non sono sufficienti in mancanza di un vero cambiamento di rotta.