Qualunque provvedimento di una certa identità il governo vorrà assumere dovrà negoziarlo con l’Europa. Siamo usciti dalla procedura di infrazione per deficit eccessivo, ma i margini di manovra che ne derivano ammontano al massimo a 8 miliardi di euro, lo 0,5% del pil. Per averne di maggiori, dovremo chiedere all’Ue di non conteggiare, nel computo del deficit, risorse utilizzate – a seconda delle ricette delle varie forza politiche – per le finalità più disparate. Renato Brunetta, per esempio, ha proposto di non calcolare gli effetti prodotti dagli ultimi due terremoti, quello dell’Aquila e quello in Emilia Romagna (22 mld). Il governo, dal canto suo, si limita a chiedere di non conteggiare le quote destinate agli investimenti. Alberto Bagnai, professore associato di Politica economica presso l’Università G. D’Annunzio di Pescara, e firmatario assieme a molti altri docenti di fama internazionale del Manifesto di solidarietà europea che sarà presentato il 15 giugno a Parigi, ci spiega qual è l’unica strada per uscire dalla crisi.
Sembra che tutte le ricette economiche passino dalla concessioni europee in merito al deficit.
Il dibattito sullo scorporo di alcune voci dal computo del rapporto deficit/Pil è vecchio quanto il trattato di Maastricht. E’ dagli anni ‘90 che se ne parla, ma una decisione del genere non è mai stata presa e, nel frattempo, sono passati 20 anni. Da sempre esiste la consapevolezza dei problemi che norme troppo rigide avrebbero determinato, ma non si è mai voluto allentarle sul fronte degli investimenti. Oggi, di fronte alla drammaticità della crisi, sembrebbe auspicabile che i politici prendessero atto della necessità di dotarsi di regole più flessibili. Tuttavia, svariati premi Nobel tra cui, di recente, James Mirrlees al Festival dell’economia di Trento, hanno chiarito che il problema non si risolve allentando le restrizioni per i Paesi del Sud-Europa, ovvero quelli maggiormente indebitati con l’estero. In questo contesto, infatti, le politiche che stimolano l’economia non miglioreranno la nostra competitività.
Perché no?
Non faremmo altro che rilanciare la domanda di importazioni, rendere ancora peggiore la nostra situazione debitoria, alimentare la crescita dei prezzi e, di conseguenza, diventare ancor meno competitivi.
Che alternative restano?
O si riallineano i cambi tra nord e sud, o qualunque altra misura di politica espansiva non rappresenterà altro che un pannicello caldo che, oltretutto, si trasformerebbe in breve nell’ennesimo boomerang. Si tratterebbe di interventi non solo nient’affatto risolutivi, ma persino dannosi.
Avendo una divisa unica, l’unica possibilità per allineare i cambi è la nostra uscita dall’euro?
Dal momento che nessuno dei nostri politici vuole sentire, in tal senso, ragioni (perché gran parte di essi hanno costruito fortune e carriere politiche sulla difesa dell’euro) possiamo auspicare l’uscita dei Paesi del nord Europa – in primis della Germania – dove diversi movimenti politici, autorevoli e sempre più grandi, stanno criticando l’attuale assetto economico-monetario.
Perché la Germania dovrebbe lasciare?
Anzitutto, l’Europa rappresenta pur sempre il suo mercato principale. Se dovesse implodere, anche per i tedeschi sarebbe un bel problema. Ci sarebbe, inoltre, un richiamo identitario nel tornare a una moneta forte. Non dimentichiamo che quando l’Italia uscì dalla moneta debole per entrare nell’euro e, quindi, nel club dei virtuosi, ci fu un’euforia generale. Per la Germania varrebbe un meccanismo psicologico simile: il Paese sta entrando in una fase recessiva, e i politici tedeschi incolpano del processo le popolazioni del sud. Comunque la si giri, l’abbandono della divisa unica coinciderebbe con l’abbandono di una moneta svantaggiosa per colpa degli altri per tornare a una valuta vantaggiosa per merito loro.
(Paolo Nessi)