Nessuno, o quasi, si aspettava decisioni rivoluzionarie dal direttorio della Bce di inizio giugno. Primo, perché la spinta della leva monetaria sembra agli sgoccioli in Usa e non produce per ora effetti rilevanti nemmeno in Giappone. In una cornice del genere perché solo la Bce dovrebbe spingere sull’acceleratore? Secondo, perché gli equilibri in seno all’Unione europea sono, se possibile, più fragili e incerti del solito. In Germania, a meno di 90 giorni dal voto, nessuno a partire da Angela Merkel intende offrire facili argomenti al fronte euroscettico. Anche le critiche in arrivo dal Fmi (compreso il clamoroso mea culpa sulla Grecia) o da altri organismi internazionali servono solo a irrigidire il fronte dei falchi. Terzo, perché lo stesso Mario Draghi dovrà tra una settimana fare fronte al giudizio della Corte Costituzionale di Karlsruhe sulla legittimità costituzionale degli Omt, la sua creatura che ha permesso un anno fa di salvare l’euro. Non è il momento, insomma, per alzare la voce contro i falchi.
Nessuno si attendeva, perciò, un gesto “forte”. Eppure la frana delle vendite sui mercati finanziari segnala che le mancate decisioni della Bce hanno lasciato il segno. Sia per le cose che Draghi ha detto, sia per quelle che non ha potuto dire. Il quadro congiunturale che emerge dai dati della Bce è sconfortante: a fine anno il Pil dell’eurozona avrà un andamento negativo nell’ordine dello 0,6%, meglio dell’ipotesi peggiore formulata tre mesi fa (-0,9%), ma peggio di quella, si fa per dire, più ottimistica (-0,1%). Per la ripresa, al solito, se ne riparla l’anno prossimo.
Ma di che ripresa si sta parlando? In media l’1,1%, ovvero un progresso che non porterà nuova occupazione. Anzi, visto che sarà legata all’export, a sua volta condizionato dall’aumento della produttività, non è difficile prevedere che la forza lavoro si contrarrà ancora nell’anno di grazia 2014, quello della mezza ripresa: si può sperare che cali lo spread, che resista l’euro e che una parte dei listini azionari migliori ancora. Ma i consumi resteranno leggeri, le buste paga pure. E questo consentirà di tenere sotto controllo l’inflazione, almeno quella legata alla domanda di mercato. Ci penserà l’inflazione da costi, quella legata ai disservizi e alle rendite di posizione, a scongiurare la deflazione…
In questo quadro, i mercati avrebbero voluto sentir parlare di “strumenti innovativi” per facilitare la trasmissione di liquidità dalle banche alle imprese. O di altre misure in grado di contrastare la recessione. Ma Draghi, che pure ha a cuore il problema, ha detto assai di meno che in altre occasioni. Non è stata presa in considerazione l’ipotesi di tagliare i tassi. Peggio: c’è stata una mezza marcia indietro rispetto all’ipotesi di infliggere un interesse negativo alle banche che posteggiano la liquidità presso la banca centrale. E per quel che riguarda l’idea di far acquistare via Banca europea per gli investimenti (Bei) i titoli privati in circolazione, vedi gli Abs, se ne parlerà solo a medio-lungo termine.
Insomma, la sensazione è che Draghi sia condannato a far passare a’ nuttata, in attesa degli eventi che si producono sul fronte della politica interna tedesca o del dibattito europeo. Anche su questo fronte, sul terreno delicato dell’Unione bancaria, trapela un certo scetticismo: i governi hanno ben poca voglia, ha lasciato intendere il presidente della Bce, di svelare in pubblico i veri conti delle banche di casa. Ancor meno di garantire con soldi propri la solidità delle banche altrui.
Il quadro, insomma, non è consolante. Ma se si dà uno sguardo oltre le frontiere di Eurolandia, l’incertezza sale. La spinta propulsiva del Giappone, per ora, sembra esaurita. La Federal Reserve sta preparando la frenata degli acquisti previsti dal quantitative easing: da 85 a 60 miliardi al mese, che è sempre una bella cifra, ma sembrano troppo pochi a un mercato che si è assuefatto alla rete di protezione che ha garantito ottimi guadagni alla speculazione finanziaria. La ripresa dell’economia reale, nonostante le speranze di Bernanke, intanto non prende consistenza.
E non potrebbe essere diversamente perché, a fronte delle iniezioni di liquidità che sostengono l’economia privata (e la ripresa degli immobili in Usa) c’è il calo massiccio della spesa pubblica di Washington che costa un calo dell’1,1% del Pil.
Cosa significa tutto questo per l’Italia? L’export, segnala Draghi, è in ripresa. Al pari della bilancia commerciale e di quella dei pagamenti. Ne deriva un aumento dei capitali in circolazione che facilita la sottoscrizione dei titoli di Stato e un progressivo assorbimento dello spread. Il risanamento, insomma, non è impossibile. Ma il prezzo, in termini di occupazione e di redditi continuerà a essere pesante.