In circostanze dominate da incertezza e paura del futuro si determina il crollo dei consumi. Si spende di meno, e quel poco che si ha lo si accantona. L’Istat ha certificato che nel primo trimestre del 2013 la propensione al risparmio delle famiglie consumatrici è stata pari al 9,3%, con un aumento dello 0,9% rispetto sia al trimestre precedente che al medesimo periodo dell’anno scorso. Contemporaneamente, il loro potere di acquisto (sempre nel primo trimestre 2013) è aumentato dello 0,5%. Come dobbiamo interpretare questi dati? Lo abbiamo chiesto a Luigi Campiglio, professore di Politica economica presso l’Università Cattolica di Milano



Partiamo dall’aumento della propensione al risparmio.

Astrattamente può dipendere da molti fattori, ma, in questo caso, direi che riflette l’aumento dell’incertezza delle famiglie. Si tratta, quindi, di una forma di risparmio precauzionale, in attesa di tempi peggiori.

Contestualmente, aumenta il potere d’acquisto delle famiglie. Non trova che il dato sia in conflitto con il precedente?



Per rispondere, dobbiamo tenere presente che il reddito nominale delle famiglie nel primo trimestre 2013 è aumentato dello 0,8%; ora, se consideriamo che il potere d’acquisto delle famiglie è aumentato dello 0,5%, ciò significa che il tasso di inflazione è aumentato dello 0,3%. Un dato cui occorre prestare molta attenzione perché significa che, nell’arco degli ultimi 9 mesi, il tasso è notevolmente decelerato. E’ la prima volta, probabilmente, dall’introduzione dell’euro, in cui l’inflazione è più bassa in Italia che in Germania.

Perché l’inflazione è così bassa?

L’inflazione, in genere, può essere bassa per due motivi: la produttività è molto alta, e l’economia va particolarmente bene; oppure, l’economia è in crisi, e i prodotti restano invenduti, mentre la domanda, sia interna che estera è estremamente debole. Evidentemente, purtroppo, ci troviamo nella seconda ipotesi. Alle luce di queste considerazioni, l’aumento del risparmio è il segnale di un tessuto familiare che ha “tirato i remi in barca” in attesa di capire come andranno le cose.



Un aumento dello 0,8% del reddito disponibile, invece, cosa indica?

Di per sé, il dato è tutt’altro che basso. E potrebbe rappresentare un primo timidissimo segnale di uscita dalla crisi. Non avendo, tuttavia, altri dati analoghi con cui raffrontarlo, non siamo ancora in grado di comprendere la dinamica futura. Potrebbe essere, quindi, un semplice segnale estemporaneo. In ogni caso, tutti questi fattori vanno presi in considerazione assieme a un altro elemento che è particolarmente preoccupante.

 

Quale?

L’Istat ha rilevato che gli investimenti fissi lordi delle società non finanziarie sono calati del 3,2% in termini congiunturali e dell’8% in termini tendenziali. Ciò significa che se dal 2007 fino al 2013 gli investimenti erano calati del 25%, dal primo trimestre 2013 hanno iniziato a calare del 30%. Il combinato disposto di questi numeri denota una situazione allarmante: le imprese, infatti, investono in funzione delle proprie aspettative nel futuro.

 

Crede che il governo abbia presente la situazione?

Che ce l’abbiano presente Saccomanni o Letta, e molti altri, lo darei per scontato.

 

Come dovrebbero agire?

Qualunque operazione dovrà essere il più rapida possibile. E occorre agire su tre fronti: primo, va sbloccata la leva creditizia, anche a fronte dal fatto che ormai siamo di fronte a un’Europa a due velocità (in Francia e Germania i prestiti aumentano, in Spagna e Italia diminuiscono. E, paradossalmente, dove diminuiscono aumetano i tassi). Secondo, in questo quadro, lo sblocco dei crediti alle imprese vantati nei confronti della Pa dovrebbe rappresentare il punto di partenza per determinare condizioni minime di equilibrio. Terzo, si dovrà tenere conto del fatto che la situazione va affronta, nel suo complesso, a livello europeo. Attraverso la liberazione degli investimenti. Lo stock di ricchezza finanziaria in cerca di rendimento, ovvero i capitali da investire, non mancano. 

 

(Paolo Nessi)