Se Monsieur de La Palice avesse assistito alla presentazione del nuovo piano industriale Alitalia-Cai sarebbe stato uno dei pochi a uscire dalla Sala Verri entusiasta. Per chi qualcosa di trasporto aereo ci capisce l’amarezza è invece grande. Davvero non si può capire la logica che porta non dico l’attuale staff (nuovo nel suo Amministratore delegato) ma chi Cai l’ha creata a essere entusiasta di una realtà che, lo ricordiamo, gli venne passata dallo Stato senza un euro di debito, con aiuti grandissimi e sgravi fiscali notevoli e che dopo quasi cinque anni di roboanti dichiarazioni di pareggio “ormai imminente” (le ultime previsioni lo danno per il 2016) si trova con un pesante passivo – questo sì degno della vecchia Alitalia – e, soprattutto, con un piano, denominato Fenice, che si è rivelato (ma ci voleva poco a capirlo) un fiasco costato allo Stato circa 5 miliardi di euro.
Una cifra che tiene conto delle 10.000 maestranze, detentrici di gran parte del know-how di più di 60 anni di storia della vecchia Alitalia, letteralmente tirate nel cassonetto di una Cigs che ora è diventata mobilità e che alla fine lascerà all’incirca 2.500 lavoratori sulla strada. Costo notevolissimo, anche perché queste persone per essere addestrate negli anni sono costate cifre iperboliche che si aggiungono agli oneri di tutta un’operazione sballata.
Mettiamo subito in chiaro che quanto detto nel corso della presentazione del nuovo piano industriale è estremamente logico (puntare sul lungo raggio aprendo nuove rotte, gestire il medio raggio in modo più coerente con la situazione del trasporto aereo, ridisegnare Linate e Malpensa come aeroporti importanti nel network, apertura di nuovi scali: insomma, fare ricavi), però viene da chiedersi perché ci siano voluti 5 anni per capirlo e, soprattutto, visto che l’implementazione del piano richiede parecchi soldi e che i “patrioti” non sono mai sembrati entusiasti di mettere denaro in questa operazione, chi finanzierà il tutto.
A questo proposito si parla della Cassa depositi e prestiti e del fondo per lo sviluppo, ma sarebbe davvero scandaloso se lo Stato dovesse metter mano al portafoglio dopo aver profuso ingenti capitali. A meno che non si dia per terminata l’esperienza Cai e ci si decida una buona volta a mettere ordine in un settore vitale per un’economia come la nostra quale è quello rappresentato dal trasporto aereo.
In primis dando il benservito a chi ha dimostrato di non saper gestire una compagnia aerea e poi ponendo regole precise che governino il Far west dei cieli che ha permesso lo spropositato fenomeno delle compagnie low cost, che in alcuni casi, pur operando nel nostro Paese, sottraggono ingenti risorse all’erario eludendo costi che vengono trasferiti nei paesi d’origine dei vettori, quando non approfittando di sovvenzioni che gli stessi aeroporti elargiscono. C’è da augurarsi che le regole siano uguali per tutti, in modo da instaurare una vera concorrenza, senza trucchi né aiuti celati per nessuno.
È innegabile altresì che una vera politica sugli aeroporti debba prendere piede mediante una complementarietà con il sistema ferroviario, in modo da dotare il Paese di una rete di trasporti più efficiente ed economica, evitando quel proliferare di aeroporti di secondo e terzo livello che fanno dell’Italia, con una lunghezza di soli 1500 km ma con ben 105 scali operativi, un vero leader mondiale nel rapporto tra le strutture aeroportuali e il territorio.
Un altro drastico cambiamento dovrà riguardare la forza lavoro: dopo l’“epurazione” del 2008, a seguito di accordi alquanto singolari con le organizzazioni sindacali firmatarie, le esigenze di manodopera sono state coperte in massima parte con il ricorso a contratti a tempo determinato riguardanti personale ex novo, pur avendo a disposizione tutto un serbatoio di ex dipendenti in Cigs: si potrebbe approfittare anche delle recenti disposizioni governative sul lavoro per richiamare lavoratori che, nel 2015, alla fine degli ammortizzatori sociali, si ritroveranno senza pensione, né lavoro, in pratica per strada.
Il bacino di utenza, come detto nella presentazione del piano industriale, è notevole a livello di potenziale, ma è stato corroso da politiche scellerate che si sono succedute dal 1998 ai giorni nostri. Riconquistare il mercato e, soprattutto, fare ricavi, è un’operazione ardua, ma non impossibile, a patto che venga compiuta da persone esperte nel settore. In questi anni le compagnie straniere, non solo low cost, hanno ampiamente approfittato del nostro mercato che per molte rappresenta il secondo per importanza dopo quello della nazione di appartenenza del vettore. Siamo un Paese che ha enormi vantaggi rispetto ad altri proprio in questo campo, dovremo però smetterla di fare harakiri (come in altri settori) e, soprattutto, dovremmo disporre di una classe industriale degna di questo nome e quindi disposta a rischiare del suo invece che invocare uno Stato al quale girare le perdite.
Fare Sistema-Paese significa anche questo e non bastano certo abbattimenti abissali del costo del lavoro (che era già altamente competitivo nel 2008), sfilate di vecchie uniformi e fusoliere con gli storici simboli di un’Alitalia che è stata tra i primi 8 vettori al mondo per ricrearne l’immagine.