L’articolo 45 della Costituzione così recita: “La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità. (…)”. Questo principio ha guidato tutto il percorso storico-legislativo e quindi normativo della storia cooperativa italiana dal secondo dopoguerra a oggi. Va ricordato che il sistema cooperativo italiano, che era cresciuto a partire dalla seconda metà dell’Ottocento sotto tutte le fronde dell’economia morale (liberalismo sociale, cattolicesimo sociale, repubblicanesimo, socialismo), era divenuto talmente forte e imponente in Italia che neppure il fascismo riuscì ad annichilirlo e a estirparlo. Chi potesse rileggere quel libro straordinario che Gobetti pubblicò nel 1925 nelle sue edizioni, poco prima di morire, e che aveva un titolo emblematico “La cooperazione operaia in Italia” di Biagio Riguzzi e Romildo Porcari, due dirigenti de Partito del lavoro riformista, rimarrà stupito dalla straordinaria articolazione che esso aveva. E si badi bene che il libro non affrontava i temi della cosiddetta cooperazione non operaia, ossia agricola e di credito, che era un vanto tanto del movimento socialista quanto di quello cattolico e liberalsociale.
Il fascismo, come ben descrive Angelo Tasca nel suo “Nascita e avvento del fascismo in Italia”- il più bel libro sinora scritto su quegli anni cruciali della nostra storia – ne uccise i dirigenti con le sue violenze squadristiche, ne intimorì i soci, ne distrusse alcune parti che più contrastavano col suo blocco sociale agrario – sia grande e piccolo borghese ,- ma ne lasciò intatta la struttura istituzionale, burocratizzandola e in certa qual misura statualizzandola, così da mantenerne quasi intatto il potenziale economico, ma evirandone il potenziale politico morale, che era fondato sulla libertà di coscienza e di associazione. Neppure le banche cooperative cattoliche, tanto forti quanto frammentate, furono eliminate, nonostante i forti contrasti che intercorsero tra il regime e l’Azione Cattolica a partite dal 1931.
Quell’articolo 45 della Costituzione fu voluto dai padri costituenti – si rileggano a questo proposito gli atti di quella fondamentale Assemblea – per ridare al movimento cooperativo tutto la sua dignità di libera associazione economica a proprietà collettiva di piccoli gruppi e a mutualità completa o prevalente, ma pur sempre fondata su quell’autonomia consustanziale al cooperativismo che è la libertà associativa. Quella libertà associativa che in fondo neppure il fascismo aveva potuto e voluto annichilire, consapevole del ruolo sociale che anche in un regime dittatoriale non poteva non svolgere, soprattutto nei momenti di crisi
È a questa storia eroica, tumultuosa, dolorosa, ricca di insegnamenti che ho pensato quando ho udito le recenti parole del Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che preconizzavano con un certo qual piglio pretoriano, la necessità di trasformare le banche popolari in Società per azioni. Mi è venuto alla mente Harold Bloom, che da grande critico umanista qual è ci ricorda che quando la storia non guida più le azioni degli uomini essi fanno la fine dei ciechi di Brueghel, anche se siedono, a mo’ di presidio sovietico, su scranni più alti di coloro che li ascoltano. E dimenticano soprattutto l’insegnamento dei loro predecessori, in questo caso, Beneduce, Menichella, Carli, tutti fautori delle Banche Cooperative e delle Banche Popolari.
Esse, per carità, in tutta la loro molteplice variegata storia hanno avuto vicissitudini d’ogni sorta, e molte di esse hanno deciso di cambiar statuto, addirittura di trasformarsi in SpA per poi ritornare a essere cooperative. Quindi non v’è da affrontare in modo clericale o ideologico la questione, perché la sostanza è che decidono o decisero di farlo da esse stesse, come associazioni rampollanti dalla società economica e dalla società politica, ossia da quella che oggi in modo inesatto si usa chiamare società civile.
Abbiamo già avuto sin troppi atti pretoriani, in questi ultimi anni, ossia atti che sospendono l’essenza sussidiaria e democratica della nostra Repubblica. Non hanno portato a nulla di buono. La cooperazione è l’essenza stessa della riproducibilità del pluralismo moderno, perché si fonda sulla possibile diversità genetica delle specie proprietarie, diversità che è ancor più preziosa per uscire dalle crisi economiche e morali. Vigilare dovrebbe essere ben diverso dal comandare. Conoscere la storia dovrebbe essere un imperativo formativo di chi ha pubbliche responsabilità.