Dal 1992 a oggi le tasse degli enti locali in Italia sono aumentate del 500%. Dai primi decreti di 20 anni fa alla riforma del titolo V della Costituzione, è stata spostata progressivamente la competenza in materia fiscale aumentando la capacità di scegliere da parte di Regioni, Comuni e Province. Stando a un’analisi di Confcommercio realizzata in collaborazione con il Cer – Centro Europeo Ricerche, le uscite primarie correnti delle amministrazioni locali sono crescite del 126% da 90,5 a 205 miliardi di euro. Ilsussidiario.net ha intervistato il professor Carlo Buratti.
Che cosa ne pensa dei dati della ricerca di Confcommercio?
Il trasferimento di funzioni dallo Stato agli enti locali, attraverso il decentramento, è un fatto abbastanza naturale. Negli ultimi anni però si è verificato il taglio di trasferimenti dallo Stato a Regioni, Province e Comuni, in un quadro di una loro maggiore autonomia tributaria. L’aumento delle imposte locali è una conseguenza di questo insieme di fattori. In parte il fenomeno è fisiologico e non necessariamente vuol dire che gli enti locali sprecano.
E’ così certo del fatto che non vi sia uno spreco di risorse da parte di Regioni e Comuni?
In taluni casi ci può essere stato anche un effetto del cattivo impiego delle risorse, e alcuni enti locali sono stati costretti ad aumentare le aliquote perché andavano incontro al dissesto. Leggendo i dati riportati dal rapporto di Confcommercio stupisce però soprattutto il fatto che non siano diminuiti con la stessa rapidità i tributi erariali.
Per quale motivo ciò la stupisce?
L’incremento dei tributi locali è stato provocato dal decentramento e dal taglio dei trasferimenti da uno Stato agli enti locali. Dovremmo quindi aspettarci come conseguenza una diminuzione delle imposte erariali. Invece questo non c’è stato, ed è un fatto veramente grave in quanto lo Stato non riesce a tagliare i suoi costi e le sue imposte. Impone agli enti locali e alle regioni dei sacrifici, ma non riesce a razionalizzare la sua spesa e a ridurre le sue entrate.
Quindi non è il federalismo in quanto tale a fare lievitare la pressione fiscale?
Certo che no, il federalismo si inserisce in una determinata situazione storica e forse è stato attuato nel momento sbagliato contemporaneamente ai tagli alla finanza pubblica. Va chiarita però una cosa: federalismo vuol dire prelievo locale, altrimenti che federalismo è?
Quali sono le implicazioni di questo dato di fatto?
Tutto ciò implica che regioni ed enti locali si devono autofinanziare in modo molto sostanzioso, decidendo le proprie aliquote, detrazioni e deduzioni. Poi lo Stato interverrà con trasferimenti perequativi, per dare risorse agli enti che non ne dispongono a sufficienza rispetto al fabbisogno. Non c’è quindi nessuna ragione di scandalizzarsi per l’incremento delle tasse locali. Semmai ci si dovrebbe scandalizzare del fatto che lo Stato non riesca a ridurre il suo prelievo: questa è veramente la pietra dello scandalo.
Un +500% nell’imposizione locale in 20 anni non è però un fatto scandaloso?
Negli ultimi 20 anni sono cresciute le competenze delle amministrazioni locali e ciò ha determinato un effetto sulla spesa e sulle imposte. Dagli articoli usciti sulla stampa non è inoltre chiaro se si tratti di cifre in termini deflazionati, reali o nominali. Non si capisce cioè se lo studio di Confcommercio tenga o meno conto dell’inflazione, ed è chiaro che in 20 anni l’inflazione è aumentata in modo notevole.
Non è però paradossale che il federalismo, il quale dovrebbe favorire un utilizzo più razionale delle risorse, invece aumenti le entrate tributarie?
L’utilizzo più razionale delle risorse è ciò che avviene nella fase in cui il federalismo entra a regime, mentre adesso siamo ancora nella fase di transizione in cui lo Stato prima ha trasferito delle funzioni, poi ha trasferito capacità contributiva e ha soppresso i trasferimenti. La conseguenza è una sostituzione dei trasferimenti con il prelievo fiscale da parte dell’erario. Ciò è appunto fisiologico e non c’è nulla di cui scandalizzarsi.
(Pietro Vernizzi)