Ci stiamo rapidamente avvicinando al primo anniversario del discorso tenuto da Mario Draghi durante una conferenza a Londra (26 luglio 2012), quando il governatore della Bce affermò in maniera netta che avrebbe fatto tutto quanto necessario per salvare l’euro. Quella dichiarazione ha segnato il picco dei premi al rischio sui mercati dei titoli di Stato dell’area euro e il momento di massima frenesia nell’acquisto di titoli sovrani di alta qualità, considerati un “porto sicuro” dall’esterno dell’eurozona. Da allora, i titoli sovrani periferici hanno offerto agli investitori rendimenti complessivi rilevanti.
L’indice total return dei governativi spagnoli è in rialzo del 19% e l’indice italiano equivalente è in rialzo del 16%, nonostante i continui timori riguardo la solidità dell’economia in Spagna e della situazione politica in Italia. Il problema, esattamente come per il famoso “taper” della Fed, ora diviene però sostanziale: potrà davvero Draghi fare di tutto in caso ci sia bisogno nuovamente di salvare l’euro? Viene davvero da chiederselo. E non tanto per la ricorrenza ormai alle porte, ma perché qualcosa bolle in pentola, lo sanno sui mercati, lo sanno al Tesoro italiano, lo sanno e le temono le nostre banche.
Agosto, con i suoi bassi volumi e le ancora più basse difesa della politica, appare il mese della grande paura. Insomma, siamo di fronte a un deja vu dell’estate 2011, quando l’instabilità politica italiana unita alla decisione di Deutsche Bank di scaricare 8 miliardi di debito italiano coprendosi con credit default swaps spedì il nostro spread alle stelle e ci consegnò in tre mesi un nuovo governo? Forse. Ma questa volta la strategia per destabilizzare il nostro Paese appare più sottile e quindi più subdola, anche se il bersaglio appare il medesimo: colpire le banche per colpire i nostri titoli di Stato.
Proprio come due anni fa, i prodromi di questa ipotesi di assalto cominciano prima dell’estate, esattamente il 22 maggio, quando ospite di una conferenza in Francia, il capo della Bundesbank, Jens Weidmann, lanciò l’ennesimo siluro contro la gestione Draghi della Bce. “Le nazioni devono rispettare le regole dell’unione monetaria e chiedere alla Bce di calmare i mercati crea un’Europa debole. Non può essere la Banca centrale a risolvere la crisi dell’eurozona”, disse, prima di aggiungere: “Nell’area euro devono essere possibili insolvenze di Stati”. A quel punto, gli economisti presenti al convegno di Aix-en-Provence, cominciarono a guardarsi negli occhi, turbati. Weidmann era un fiume in piena: “La politica monetaria ha già fatto molto per assorbire le conseguenze economiche della crisi, ora servono riforme strutturali. Oltre a regole più stringenti, dobbiamo assicurarci che in un sistema di controllo e responsabilità nazionale, un default sovrano sia possibile senza che questo faccia crollare il sistema finanziario”. Poi, il finale, rossiniano e decisamente dal sapore di attacco diretto a Italia e Spagna: “Esiste un collegamento troppo stretto tra banche e governi, gli istituti europei detengono troppi titoli di Stato governativi. Questo accade perché le banche non devono accantonare capitale come assicurazione sulle loro detenzioni di debito, visto che il livello di rischio assegnato alle obbligazioni sovrane è zero. Occorre cambiare le regolamentazioni di capitale, affinché tengano conto del rischio e dei livelli di esposizione. Solo così le banche europee potranno reggere le ripercussioni di un default sovrano”.
Insomma, per Weidmann va eliminato il concetto stesso di investimento “risk free” per i titoli di Stato e le banche devono creare riserve di capitale per poter reggere potenziali perdite di valore di quei titoli e, in extrema ratio, il default del Paese emittente. Di più, Weidmann vuole che sia eliminato per legge il meccanismo che vede le banche acquistare titoli di Stato per andare incontro alle necessità del proprio Tesoro, non avendo obblighi di accantonamento di capitale e potendo poi usare quei titoli come collaterale per operazioni di finanziamento presso la Bce. È di pochi giorni fa la nuova regolamentazione sulle ricapitalizzazioni bancarie in Europa, legge che nei fatti rende norma il “modello Cipro”, ovvero l’intervento su depositi non assicurati (sopra i 100mila euro) e obbligazionisti degli istituti in caso di crisi e della “cura Weidmann” non c’è traccia. Ma un’implementazione è sempre possibile e, magari, potrebbe essere l’Eba a subire le pressioni della potente banca centrale tedesca, magari in sede di futuri stress test: se il livello di esposizione delle banche dei paesi periferici ai titoli di Stato sarà eccessivo, come lo è per Spagna e Italia, Weidmann potrebbe tornare all’attacco come fece, inascoltato, già un anno fa. O, forse, basterebbe che Weidmann, in un assolato e placido pomeriggio di inizio agosto, ripetesse con tono ultimativo quei suoi auspici. Anche senza conseguenze concrete, solo al fine di mandare scossoni ulteriori in un mare già in tempesta, come appare quello politico italiano in queste ore di fibrillazione mediatico-istituzionale contro il governo Letta.
A oggi, la road map prevede che spetti alla Bce accertare la qualità degli asset bancari, valutazione prevista nel primo trimestre del 2014, prima di assumere operativamente il ruolo di supervisore e soltanto dopo, nel secondo trimestre del prossimo anno, si terranno gli stress test dell’Eba veri e propri. Ma se le minacce di Weidmann troveranno accoliti, proprio in vista di questi appuntamenti, e l’aut aut dei renziani contro Alfano si tramutasse in una crisi di governo che facesse saltare il tappo dello spread, qualche istituto italiano potrebbe essere tentato, se non costretto, ad anticipare un deleverage sulle proprie detenzioni sovrane. Ovvero, scaricare prima di scontare le perdite a bilancio: facendo salire ancora di più lo spread e la sfiduca verso il nostro Paese, clima ideale per chi sogna magari Monti al Quirinale e Renzi a Palazzo Chigi.
Attualmente le nostre banche hanno in portafoglio circa 370 miliardi di titoli di Stato italiani e l’ultimo bollettino della Banca d’Italia certificava che all’aumento dei depositi presso le banche italiane corrispondeva un’ulteriore contrazione degli impieghi nel mese di maggio, -2,4% annuo complessivo per i prestiti al settore privato, giunto nel suo insieme al livello più basso dal picco della primavera 2010, come ci mostra questo grafico.
Il perché è presto detto: a fronte del timore di erogare credito a rischio, si preferisce investire proprio in titoli di Stato, anche se ormai l’effetto carry-trade delle aste LTRO è quasi evaporato. E in effetti, sempre il Bollettino di Palazzo Koch confermava anche in maggio la crescita record delle sofferenze bancarie – un livello di aumento sui 12 mesi pari al 22,3%, mentre annualizzato si è passati dal 5,6% al 6,9% -, arrivate a quota a 136 miliardi, pari all’8,6% del Pil, il triplo rispetto al 2008. Ed ecco il nervo scoperto su cui qualcuno potrebbe fare leva in caso di attacco estivo al nostro Paese attraverso il sistema bancario e lo spread.
Questo grafico è di Diapason su dati Bloomberg e compara l’andamento delle sofferenze bancarie italiane (linea rossa) con quello dello spread tra Btp e Bund tedeschi (linea verde) e quello della ratio debito/Pil (linea nera). Come vedete, fino a un certo punto i due andamenti sono stati più o meno regolari, ovvero hanno conosciuto una medesima traiettoria. Poi, da metà del 2012, le traiettorie sono divenute nettamente divergenti: le sofferenze crescevano in linea con la ratio debito/Pil, mentre lo spread si comprimeva grazie ai soldi della Bce che permettevano alle banche europee di comprare titoli di Stato e alla promessa di Draghi di difendere l’euro ad ogni costo, il 26 luglio 2012.
Senza questo “doping” – che come ci ha fatto capire Bernanke potrebbe finire o rallentare, mentre la Bce non ha nemmeno gli strumenti legali per acquistare bond sovrani attraverso il programma OMT – e prendendo per buona la correlazione di quella traiettoria tendenziale quasi sempre rispettata nel tempo, l’attuale spread italiano non sarebbe attorno ai 290-300 punti base com’è, ma già in area 650-660, ovvero più alto di quando sul finire del 2011, Silvio Berlusconi si dimise facendo spazio a Mario Monti.
L’effetto Draghi, empiricamente, ci sconta circa 350 punti di spread. Una dinamica che farebbe salire e di molto i costi del servizio del debito, oggi di circa 80 miliardi l’anno, mandando fuori controllo di sostenibilità i conti dello Stato e che vedrebbe le nostre banche scontare a bilancio perdite di valore enormi su quei bond, fino al dimezzamento del prezzo pagato. E forse oltre. Capite perché le parole di Weidmann, apperentemente accademiche, non sono affatto tali? Se poi la Commissione europea bocciasse i Monti-bond da 4 miliardi per Monte dei Paschi – stranamente ancora non si è pronunciata al riguardo – chi pagherà per salvare Mps, stante le nuove regolamentazioni Ue? I
L Fmi, d’altronde, due settimane fa è stato chiaro: il Tesoro sia pronto a intervenire sull’istituto senese. E anche a porre pressioni affinché le banche popolari abbandonino la governance capitaria e si tramutino in Spa a tutti gli effetti. Troppo interesse attorno alle nostre banche, troppo forte l’eco delle elezioni tedesche di fine settembre, troppa la voglia di molti centri di potere italiani (economici-finanziari-editoriali) di sfruttare scappatoie kazake per un democraticissimo regime change, senza dover aspettare come l’altra volta l’inverno. Questa volta forse si voterà ma in quali condizioni? Certo, rischiamo di essere commissariati, di dover chiedere aiuto all’Europa e al Fmi, ma è un prezzo che certe élite paiono pronte a pagare, forse perché lo danno comunque come sbocco ineluttabile. Anzi, a farci pagare. Il Quirinale, a oggi, appare sempre di più la nostra ultima linea del Piave per evitare pericolose fughe in avanti, il corrispettivo politico del discorso di Draghi del 26 luglio 2012, quello che ci ha salvato dal quasi default. Per ora.
P.S.: Direte voi: ma perché tanta importanza a Weidmann in questo articolo? Risposta: chi ha incontrato Renzi nel primo dei suoi terribilmente irrituali incontri internazionali? La Merkel. E di cosa hanno parlato? Io non lo so, ma certamente non di Mario Gomez alla Fiorentina, come acutamente ha risposto ai cronisti lo stesso sindaco di Firenze. Magari del tempo.