Anche i cosiddetti Brics cominciano a perdere colpi? Lo stock di inflows di capitale verso quei paesi è cresciuto dai 4 miliardi del 2008 agli 8 attuali, ma ora i tassi in rialzo e un rischio di rally del dollaro in caso la Fed opti per un “tapering” non troppo in là nel tempo hanno messo la mordacchia a quelle economie, da anni in modalità turbo. Albert Edwards, stimato analista di Societe Generale non ha dubbi: «Qualsiasi crisi abbia visto nei mercati emergenti, è sempre stata preceduta da un aumento del valore del dollaro». Non è un caso che da circa un mese, da quando ciò la Fed ha cominciato a parlare con maggiore insistenza di rallentamento del programma di stimolo, gli investitori abbiano cominciato a valutare quanto le economie Brics possano essere vulnerabili a uno shock sul biglietto verde, questo perché il processo di eccesso di liquidità e creazione di riserve estere vivrebbe un’inversione netta, una sorta di restrizione monetaria che si traduce in un circolo vizioso. I mercati a quel punto guardano quale sia l’anello debole, ovvero chi sconta un deficit di conto corrente peggiore e il domino può cominciare.
Il timore peggiore è quello prefigurato dall’ex funzionario del Fmi e ora manager alla SLJ Macro Partner, Stephen Jen, secondo cui dobbiamo aspettarci «uno stop improvviso, il momento in cui la capacità di finanziamento per i Brics si prosciugherà in maniera brutale e gli investitori scapperanno in massa verso l’uscita». I dati, d’altronde, parlano chiaro: la crescita nei mercati emergenti è al passo più lento da quando è iniziata la crisi finanziaria globale, certificava giovedì Capital Economics. La crescita media in Asia, America Latina ed Europa ha rallentato al 4% anno su anno nel primo trimestre del 2013: il dato medio nel corso della scorsa decade era del 6,4%. I numeri relativi al Pil da aprile suggeriscono che il secondo trimestre non porterà miglioramenti, se non minimi in alcuni casi. Quindi, ci troviamo di fronte a un combinato disposto: un rallentamento già in atto, radicalizzato poi dalle parole – a volte in libertà – della Fed.
Il Sudafrica è il primo dei Brics a essere scivolato da una situazione di crisi di routine in quella che appare sempre di più la classica e old fashioned crisi da Paese del Terzo mondo: il deficit di conto corrente attuale è al 6% del Pil, il rand è crollato a un minimo da quattro anni su dollaro e anche il rendimento del decennale comincia a preoccupare, nonostante il trend sugli yield sia generalizzato. A confermare la situazione il ministro delle Finanze, Pravin Gordham, in persona: «Chiaramente c’è un rischio, che tutti noi vediamo, di repentino e improvviso cambiamento del sentiment. Una volta che ci sono stati buoni inflows, non si possono escludere affatto outflows improvvisi e non anticipati». A questo va poi unito il crollo del prezzo dell’oro e gli scioperi infiniti proprio nelle miniere, terminati più di una volta nel sangue: solo nel 2012, gli scontri tra manifestanti e polizia nella miniera di Marikana costarono la vita a 34 persone.
Il Brasile, cui ho dedicato un articolo ad hoc due settimane fa, mostra chiari segni di stagflazione, inchiodato com’è nella classica “trappola del reddito medio”. La Russia non appare ancora in crisi, la crescita è però all’1,6% nel primo trimestre di quest’anno dall’1,8% dell’ultimo del 2012, un dato superiore alla media dal 2003 al 2012 dell’1,13%, Il settore manifatturiero vanta un aumento dell’1,2% rispetto lo scorso anno, ma l’eccessiva dipendenza da petrolio e gas in un mondo fermo, con crescita diminuita e in alcuni casi a zero, senza contare il nuovo business dello shale gas, rischiano di tramutare l’Orso nell’ennesimo ferito grave di questa contrazione. Con il 12% di output mondiale di petrolio, il 18% di gas naturale e il 20% di nickel, la Russia è la classica nazione comodities-driven, visto che il settore energetico pesa per il 25% del Pil, il 65% dell’export totale e per il 30% delle entrate nel budget governativo.
Per Albert Edwards, il nuovo acronimo dovrebbe vedere sparire la S di Sud Africa e si tramuterebbe in una formula al negativo: Bloody Ridiculos Investment Concept. La stessa India, infatti, ha sì sposato il libero mercato, ma soffre di gravi crisi energetiche che si sostanziano in continui blackout, ha un deficit di conto corrente del 6,7% sul Pil e un deficit di budget centrale e locale ormai prossimo al 10% del Pil. E nonostante una qualche stabilizzazione occorsa negli ultimi giorni, grazie anche ad alcuni dati macro e all’intervento della Banca centrale, la rupia è sotto forte pressione, dovuta a fattori esterni ma anche interni. Primo, l’India importa in termini di valore più di quanto esporta, quindi viaggia in regime di deficit commerciale, salito alla fine dell’anno finanziario a 185 miliardi di dollari, dai 160 previsti. Secondo, la riduzione dell’inflow di capitali esteri. Terzo, il deficit di conto corrente troppo alto. Quarto, la pressione svalutativa innescata da questo quadro d’insieme, con sempre più vendite di rupie per acquistare dollari. Quinto, bassa crescita, 6,5% contro il 9% del 2009-2010 e inflazione che si aggira ormai in doppia cifra in termini reali.
C’è poi la Cina, in piena crisi di liquidità del sistema bancario e con la Banca centrale impegnata più in annunci che in interventi reali. Con la crescita del credito salita da 9 a 23 trilioni di dollari in quattro anni, appare chiaro che l’incertezza innescata dalla Fed e il rischio di un shock sul dollaro, cui lo yuan è legato da peg, potrebbero accelerare una crisi che appare di giorno in giorno più profonda. E anche i 3,4 trilioni di dollari di riserve potrebbero risultare un bazooka scarico, visto che potrebbero sì essere utilizzati per ricapitalizzare il sistema bancario ma per essere messi in circolo dovrebbero essere riconvertiti da dollari a yuan, provocando un apprezzamento della valuta che rafforzerebbe lo shock. Le Borse locali, d’altronde, stanno già prezzando questa nuova realtà. Shanghai è a -70% dai picchi del 2008 in termini reali.
Anche perché il nervo scoperto è il sistema bancario. A fine marzo di quest’anno, le sofferenze degli istituti, tra cui giganti come la Industrial & Commercial Bank of China, sono aumentate per il sesto trimestre di fila, il peggior dato da nove anni a questa parte: siamo a quota 20%, circa 86 miliardi di dollari e lo 0,96% del totale. Certo, il dato appare rassicurante, ma non lo è, visto che questa cifra non riflette il vero ammontare del debito, mascherato dallo spostamento fuori bilancio dei prestiti. Alcuni vengono re-impacchettati e venduti come prodotti di gestione del risparmio a clientela retail, mentre altri vengono venduti a istituzioni non bancarie, come i trust. Ma con la crisi che avanza, si comprano meno quegli strumenti e il prestito a rischio resta in pancia alla banca, ancorché off-balance. Inoltre, le sofferenze ufficiali oggi potrebbero crescere di molto, vista la sempre maggior difficoltà di cittadini e imprese a rifinanziare i prestiti. Il tutto, all’ombra di un vulcano pronto a esplodere, il sistema bancario ombra – ormai pari al 200% del Pil cinese per Moody’s, mentre JP Morgan Chase lo valuta al 69%, per un controvalore del 36 trilioni di yuan – visto che stando a dati della Citic Securities, il 97% della piccole e medie imprese cinesi non ha più accesso al credito bancario e i risparmiatori cercano profitti maggiori.
E proprio per combattere questo sistema bancario “parallelo” la Banca centrale cinese nicchia nell’iniettare liquidità nel sistema e anzi nelle scorse settimane ne ha drenata: il problema è che quel gigante di credito, se eliminato, porterà via con sé circa il 70% del Pil cinese, se non di più. Per Richard Pettis, professor di finanza all’Università di Pechino, «il problema è che quando si hanno livelli di debito così alti, è soltanto altro debito a tenere a galla quello stock. A quel punto va assolutamente fermato il processo, ma è estremamente difficile farlo in maniera ordinata». Di più, ieri è giunta la conferma che il Purchasing Manager Index (Pmi) della Cina è rallentato a giugno, scendendo al 50,1 rispetto al 50,8 di maggio. Benché in linea con le aspettative del mercato, il dato, che viene considerato come un indicatore affidabile dell’andamento della produzione industriale, risulta essere il più basso degli ultimi quattro mesi.
In particolare, secondo gli analisti, la flessione dei nuovi ordini (scesi dal 51,8 di maggio al 50,4 di giugno) indica un ulteriore rallentamento del ritmo di crescita dell’economia cinese, al minimo da nove mesi. Un bel guaio, insomma. Tanto più che a pagare non saranno solo i Brics, ma anche gli investitori stranieri che hanno iniettato in quel sistema economico 8 triliardi di dollari, 4,4 dei quali sono prestiti delle banche europee.
P.S.: Dopo una nuova notte di negoziati, giovedì scorso i 27 ministri delle Finanze dell’Unione hanno finalmente trovato un accordo sulle regole da applicare in occasione della ristrutturazione o della liquidazione di una banca in crisi. L’intesa prevede che in un primo tempo azionisti, obbligazionisti e depositanti – e non gli Stati – siano messi a contribuzione. Stando all’accordo, gli investitori dovranno subire una perdita dell’8% degli attivi dell’istituto di credito prima che il governo possa intervenire con il denaro pubblico per aiutare una banca in difficoltà. Insomma, il “modello Cipro” è divenuto nei fatti la norma.
Ma proprio da Nicosia giungono notizie che preoccupano, sia per la tenuta stessa dei conti del Paese, sia per l’applicabilità pratica di determinate condizioni richieste da questa forma di salvataggio. Stando al bollettino della Banca centrale cipriota, nel mese di maggio – nonostante le restrizioni sul prelevamento di denaro ancora oggi in atto -, dai depositi delle banche del Paese è sparito un altro miliardo e 400 milioni di euro, portando così i depositi totali a 55,9 miliardi di euro, -23% dal maggio 2012 e il peggior dato da metà del 2008. Auguri.