Era opinione di Einstein che “i problemi non possono essere risolti dallo stesso livello di pensiero che li ha generati”. Due situazioni apparentemente distinte e distanti, protagoniste la Francia e la Germania che hanno, su fronti diversi, frontalmente attaccato la Commissione europea nelle scorse settimane, fanno ritenere che gli Stati difendano invece, pervicacemente, proprio il “livello di pensiero” generatore dei problemi in Europa. Qualche giorno fa il governo tedesco ha stroncato sul nascere la proposta della Commissione, in tema di unione bancaria, di accentrare a livello sovranazionale non solo la fase della sorveglianza sistemica sugli istituti europei, che effettivamente, già dalla fine del 2014 una steering committee all’interno della Bce avrà il compito di condurre, ma anche la fase della cosiddetta soluzione e del finanziamento delle crisi bancarie. Sono due delle tre gambe del tavolo che doveva tenere in piedi una plausibile strategia di contrasto al perverso intrecciarsi di squilibri comunicanti, quello del debito dei paesi e delle loro banche. La terza è la costituzione di un sistema di garanzia dei depositi, sottratta anch’essa alla dimensione nazionale, con un fondo europeo volto a evitare fughe da banche situate in paesi le cui finanze pubbliche possono essere giudicate a rischio nel far fronte a tali impegni.



Tutti a Bruxelles sanno che a oggi i correntisti nell’area euro non sono uguali. Un conto è la crisi di un istituto tedesco, con alle spalle uno stato come la Germania che, come ha generosamente fatto in passato con sette dei suoi dieci maggiori operatori bancari, può offrire prodigo sostegno pubblico, un conto la crisi di istituti di credito situati in paesi laddove l’esposizione sovrana lascia pochi spazi di manovra all’intervento di salvataggio statale. Paradigmatico l’esempio di Cipro. Il punto è che tale esistenza di banche di serie A, di serie B e a volte di serie C in relazione al Paese della loro sede, è nota anche ai risparmiatori che in un’area di libera circolazione monetaria scelgono dove portare i loro i risparmi secondo logiche tendenzialmente non autolesioniste. Di qui, l’imporsi all’evidenza che occorra non solo un sistema di sorveglianza comune, ma anche di risoluzione delle crisi bancarie e di garanzia dei depositi genuinamente su basi europee.



Quanto alla risoluzione delle crisi degli istituti di credito, un Consiglio Ecofin di gennaio ha trovato un sostanziale accordo su una scala a scendere di “vittime” predestinate nella ristrutturazione ed eventuale liquidazione della banca, partendo dagli azionisti e chiudendo con i correntisti sopra la soglia della garanzia europea (centomila euro). Un fondo alimentato dalle stesse banche della zona euro , stimato in 60/70 miliardi, è stato posto al servizio di queste ristrutturazioni continentali.

Qual è il problema per la Germania? Che tale fondo sarà alimentato in maggior misura dalle banche con maggiori attività a rischio. Le banche con maggiori depositi, il cui modello è più distante dalla merchant bank, pagheranno meno. Istituti come Deutsche Bank e Commerzbank hanno depositi rispettivamente corrispondenti al 28% e al 36 % degli attivi, banche come Santander, Unicredit, Bbva , Intesanpaolo, fondano i loro bilanci su raccolte che coprono ben oltre il 50% degli attivi. La Germania non vuole sia la Commissione ad avere l’ultima parola nella gestione di un fondo che sarà presumibilmente alimentato da più soldi tedeschi e destinato, con buona probabilità in futuro, alle banche tedesche.



Quest’ultima puntata del solito muscolare contrasto tra interessi nazionali in Europa e un autentico interesse europeo che la Commissione potrebbe meglio interpretare, non fosse altro perché unica istituzione sottoposta al controllo democratico del Parlamento europeo, si è intrecciata con la furiosa polemica ingaggiata dal presidente Hollande contro la stessa Commissione, rea di avere, nell’ambito delle sue competenze, durante il semestre europeo, osato chiedere alla Francia la riforma del suo sistema pensionistico. La Francia aveva infatti, solo poco tempo fa, varato una (contro)riforma previdenziale introducente criteri meno stringenti sui requisiti per l’età di pensionamento. L’assunto del governo francese è che queste siano decisioni nazionali. Ma è veramente così?

Nell’attuale stato della governance europea, la Commissione e in generale le istituzioni europee, detengono possenti strumenti di controllo sui saldi di bilancio degli Stati, presidiati da poteri sanzionatori in caso di deviazione dalle raccomandazioni della Commissione (l’ultimo stadio di questa marcia verso il consolidamento fiscale è costituto dal cosiddetto Fiscal Compact). Un potere decisamente più affievolito la Commissione lo ha invece sui Piani nazionali di riforma che gli stati devono presentare a Bruxelles includenti le loro linee guida in tema di riforme strutturali, microeconomiche e del mercato del lavoro. Qui le pressioni sono di natura più politica che giuridica, si parla in effetti di soft power esercitato dagli organi Ue nell’ambito del cosiddetto open method of coordination dei governi. E tuttavia è altrettanto evidente che la competitività di un Paese è questione che riguarda l’euro non meno dei bilanci di uno Stato aderente alla moneta unica. Un Paese che non cresce (ne sappiamo qualcosa) non è in grado di sostenere il suo debito, il quale è lungi dall’essere una variabile indipendente su cui agire. Ci piaccia o no, avendo accettato una moneta unica, viviamo in un sistema di vasi comunicanti in cui sarà ineluttabile cedere decisivi pezzi di sovranità.

In una unione monetaria tutto si tiene. Non si può chiedere, distonicamente, solidarietà e condivisione dei debiti pubblici e al contempo rivendicare libertà di azione nelle politiche economiche. Altrimenti a colui il quale è chiesta la solidarietà (la Germania) si prospetta una responsabilità per condotte altrui, per comportamenti che non controlla. Nella storia non è un caso che le unioni di trasferimento (ad esempio, tra la Germania dell’Ovest e dell’Est) sono successive alla nascita di un’autorità sovranazionale o di uno Stato federale. Stessa simmetrica incoerenza ha la Germania quando ritiene sia possibile godere (mai verbo è stato meglio usato) di un’unione monetaria senza un arteria femorale compensativa e anticiclica rappresentata da un bilancio federale che ridistribuisca risorse all’interno delle Ue ed eserciti funzione perequativa delle differenze di competitività presenti nell’area euro.

Come insegna lo storico di Princeton Harold James, le unioni monetarie che non diventano politiche durano poco. Germania e Stati Uniti hanno fatto prima l’unione politica e poi quella monetaria, l’Europa, capovolgendo il normale corso degli eventi, il contrario. È ora di sanare l’anomalia. Per farlo gli Stati devono liberarsi di quella che il politologo Nathan Gardels chiama, in altro contesto, la “Diet Coke Culture”: «La gente esige dolci senza calorie e allo stesso modo vuole consumare senza risparmiare, oppure chiede infrastrutture e istruzione senza voler pagare le tasse». Nello specifico sono invece gli Stati a volere la Coca-Cola senza pagare dazio. Se si vuole l’Europa se ne accettino le implicazioni in punto di sovranità oppure si lasci perdere.