Quando Mario Draghi il 26 luglio dello scorso anno salvò l’euro con tre parole (“whatever it takes”) si era diffusa la convinzione che fosse arrivata la resa dei conti per la moneta senza sovrano. Il presidente della Bce, annunciando che avrebbe fatto tutto quel che serviva, disse agli speculatori, alle banche d’affari, agli oligopoli globali, insomma a tutti i soggetti che compongono l’anonimo mercato, che un sovrano capace di sostenere la moneta c’era: la Bce da lui guidata. Proprio questo annuncio indusse a fare marcia indietro. Un annuncio, lo ripetiamo, e in definitiva una parvenza, perché per quanto possa agire da prestatore di ultima istanza, la banca centrale resta la propaggine monetaria della sovranità, non la sua sostanza. Che è per forza di cose politica.



Dodici mesi fa Draghi ha fatto un gesto di rottura, fortemente innovatore proprio per le implicazioni del messaggio. Oggi, invece, è assediato dai conservatori annidati all’interno della Bce e, ancor più, all’esterno. Una grande coalizione di fatto, che rischia di diventare vincente.

Un baluardo della conservazione è nelle banche che in pratica hanno rifiutato la leadership della Bce, come ha ammesso il vice presidente Benoit Coeuré. Hanno preso i prestiti a basso costo (l’1%), li hanno usati per consolidare i loro bilanci giocando sul differenziale con i tassi di mercato; circa metà dei mille miliardi di euro erogati nel 2012 sono stati restituiti, senza aver rivitalizzato l’economia reale. Si è interrotto il meccanismo di trasmissione della politica monetaria, ha detto lo stesso Draghi, con il rischio di perdere anche il controllo sui tassi d’interesse. Quelli ufficiali di riferimento tendono a zero, quelli reali divergono da banca a banca e da Paese a Paese, in alcuni casi puntano addirittura verso l’alto (in Italia, in Spagna, in Portogallo).



Draghi ha polemizzato duramente in più occasioni, dimostrando che non si tratta solo di una reazione spontanea agli squilibri oggettivi dentro l’area euro, come proclamano i banchieri. Le banche sono piene di crediti a rischio a causa della recessione, non si sono ancora ripulite dai derivati, nascondono la polvere sotto il tappeto come le Landesbanken tedesche o le banche locali italiane (ultimo il caso della Banca delle Marche). E chi le guida non ha fatto granché per riportarle ai livelli di solidità ed efficienza che le mettano davvero al riparo dalla crisi.

Oggi sono loro il grande punto debole dell’Europa e una minaccia per l’intero sistema finanziario mondiale. “Morti che camminano” secondo l’Economist, troppo grandi non per fallire, ma per essere salvate: i loro bilanci sono cinque volte il prodotto lordo dell’Unione, hanno bisogno di capitali, però nessuno è in grado di impegnare risorse tanto grandi, nemmeno i governi.



La seconda resistenza conservatrice è, ça va sans dire, nella Bundesbank o meglio in Germania, perché la banca centrale non fa che rispecchiare interessi, umori e opinioni del governo e del Paese. Un alto dirigente della Banca d’Italia confessa che quando due anni fa l’economista Hans Werner Sinn agitava lo spettro del target 2, sembrava che parlasse di una questione tecnica (si tratta della compensazione dei pagamenti transfrontalieri), ai limiti dell’esoterismo se tutti battono la stessa moneta. Invece, Sinn aveva già in mente una possibile rottura e la distribuzione degli oneri e dei costi. L’economista tedesco continua a essere a favore dell’unione per ragioni politiche, ma sul piano economico sostiene che non funziona. In fondo, è l’opinione più diffusa nella classe dirigente non solo tedesca, ma europea. Fino a quando potrà reggere questa frattura tra le due dimensioni?

Intanto, è stata bloccata un’altra delle innovazioni di Draghi: il piano per il credito alle imprese, ancora una volta a causa del timore che si trasformi in un aiuto surrettizio ai paesi deboli (cioè in sostanza all’Italia). Se, come è probabile, verrà rinviata l’unione bancaria, se si arriverà a litigare su chi controlla il controllore (cioè il vigilante unico), allora questo può diventare il segnale dello sfascio. Tana liberi tutti? Magari non completamente, ma ognuno pensi soprattutto a se stesso.

Il modello Cipro, cioè far pagare la crisi delle banche non solo agli azionisti, ma anche ai depositanti (e ai contribuenti che comunque dovranno metter mano al portafogli se intervengono le finanze pubbliche), è quello preferito dalla Germania. In teoria un segno di responsabilità, perché riduce l’azzardo morale. In pratica, un’ulteriore passo verso la ri-nazionalizzazione: ciascun per sé, la solidarietà e l’aiuto collettivo ridotti al minimo indispensabile per non innescare reazioni sistemiche stile Lehman Brothers.

Vedremo che cosa deciderà la Corte costituzionale di Karlsruhe sull’Omt e se il meccanismo salva-stati (l’acquisto diretto dei titoli pubblici a breve sul mercato secondario da parte della Bce) ne uscirà integro o con le ossa rotte. In ogni caso, il nuovo Zeitgeist imporrà ai paesi costretti a chiedere aiuto condizioni iper-draconiane: la medicina rischia di essere peggiore del male.

Ma non c’è solo Berlino nella lista dei conservatori. Parigi, che a parole è contro l’austerità e ha sostenuto la svolta attivista di Draghi, non è in grado di sopportare un trasferimento ulteriore di sovranità fiscale. La crisi del bilancio pubblico è tale che il governo ha dovuto chiedere una proroga, alla faccia delle regole uguali per tutti. È chiaro che, se non riesce a rispettare i criteri di Maastricht, il Fiscal compact e (tanto meno) la norma del pareggio, non può neppure rinunciare a una politica nazionale. Ammesso che lo voglia: questo è un aspetto dirimente, sul quale i francesi di ogni parte politica, a destra e a sinistra, hanno sempre puntato i piedi. Il paradosso è che gli italiani e in parte gli spagnoli, che avrebbero bisogno di maggiore flessibilità, restano gli unici disponibili a farsi guidare da Francoforte se non proprio da Berlino.

Agli assedianti che mettono in pericolo l’euro, bisogna aggiungere imprenditori e sindacati. Uno degli argomenti classici di chi sostiene che gli stati possono anche fallire senza far crollare l’intero sistema è il paragone con gli Stati Uniti d’America, di estrema attualità con la bancarotta di Detroit. L’obiezione riguarda l’esistenza di una banca centrale con poteri più estesi rispetto alla Bce e una politica fiscale unica a livello federale. Solo in parte sono argomenti calzanti. La Fed non salva i singoli stati i quali, in seguito a emendamenti costituzionali approvati nella prima metà dell’800, sono per lo più tenuti a pareggiare annualmente i bilanci. I trasferimenti agli agricoltori o alle regioni aride del Far West, o la miriade di altri sostegni alle aree depresse, non sono chiaramente sufficienti. La vera differenza è il mercato del lavoro. Dagli stati in crisi la gente si trasferisce verso stati dove trova una nuova occupazione e migliore tenore di vita.

Nell’Unione europea non è possibile, si dice per ragioni storiche, culturali, linguistiche, in realtà perché non c’è un mercato del lavoro unico e nessuno lo sta edificando. Nel secondo dopoguerra nessuna barriera ha bloccato milioni di italiani, spagnoli, portoghesi migranti verso Germania, Belgio, Francia. Allora il mercato del lavoro s’era aperto per stato di necessità dal lato della domanda e dell’offerta, in modo sia pur distorto e diseguale.

La moneta senza sovrano, dunque, è una moneta senza una vera unione economica. E la crisi, al contrario delle speranze degli europeisti alla Ciampi o alla Padoa Schioppa, non ha affatto favorito il cambiamento. Al contrario, sta prevalendo la conservazione che rischia di mettere in seria difficoltà un innovatore come Draghi. A questo punto, non gli basterà dire altre paroline per invertire l’onda che sta montando sotto la calma apparente dello spread o dei mercati i quali accumulano grandi guadagni con i titoli azionari e per ora hanno lasciato perdere i bond sovrani.

È arrivato, dunque, il momento di riportare la politica al primo posto. E affrontare pubblicamente, in modo aperto, gli ostacoli sulla via dell’Europa.

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