Esiste un destino generazionale. Uno nasce in un certo periodo e riesce ad ascoltare alcune voci così influenti che nessun altro rumore riuscirà più a tacitare. Accade così quando studi all’università di Pisa e incontri veri marxisti. No, signori, non quelli in vetrina come vediamo oggi, spalmati tra tv e recensioni di libri che nessuno, neppure un militante sfigato leggerà mai; no, parlo di gente vera, che studia e si incazza se non studi; e studiare è una vocazione, devi seguirla fino in fondo, accettando le frustrazioni del caso. I maestri, si diceva una volta. Ecco, sì, i maestri. Oggi è difficile trovare perfino qualche buon segretario di partito, figuriamoci i maestri, che poi sono la copia, in plasticità drammatica, dei padri. Un maestro vero non è detto sia un padre, ma, chissà come e chissà perché, vorresti vedere in tuo padre un frammento di quel maestro e, qualche volta, magari hai pure questa grazia. Insomma, signori, qui si tratta di rimettersi a pensare e, di conseguenza, a sparare meno castronerie a ritmo industriale (almeno, di quando c’era l’industria anche da noi).



I fatti, due nella fattispecie in oggetto: un comunista in odore di qualche paginetta leggiucchiata qua e là di Marx, Stefano Fassina, viceministro dell’Economia, spara un colpo non a salve, a un convegno di Confcommercio: esiste “un’evasione di sopravvivenza”. Ora, non voglio fare il bastard inside e sparare un contro-colpo: bravo, sei un tantino in ritardo, Berlusconi l’aveva detto qualche annetto fa, e davanti ai grandi capoccia della GdF. Poca lana, questo è un giochino che non funziona più e non diverte più: bramo la verità su questa vicenda, la dicesse anche l’ultimo faraone del marxismo redivivo o resuscitato da Dio alla bisogna, ne sarei infinitamente lieto. E sia, dunque: Fassina, optime. Non voglio neanche sapere dove tu voglia andare a parare, se abbia voluto lisciare il pelo alla folla incanaglita (giustamente) dei commercianti, o chissà cos’altro, anch’io ho letto Lenin e la favoletta del legno che va storto dall’altra parte, poi ho letto Ignazio di Loyola e ho appreso che questa mossa funziona anche nella vita del cristiano, si chiama “agere contra”, e mi sono placato: avanti tutta con la verità. Bene disse l’Aquinate: “Veritas, a quocumque dicatur, a Spiritu Sancto est”. La verità, da qualsiasi parte provenga, viene dallo Spirito Santo. Se non sei credente, mettiti l’animo in pace, qui non c’entra il catechismo, ora arrivo alla ciccia.



Eccola: di contro, leggo il premier Letta che vuole fare la guerra ai furbetti delle tasse. Abbiamo messo in soffitta i furbetti del quartierino, eleganti gentlemen rispetto a quei flor de bandidos che giocano con i debiti dei cittadini e ci spalmano sopra i loro hedge funds, e ritroviamo puntualmente un’altra carta falsa dei moralisti in servizio effettivo permanente, non me ne voglia, posto che si abbassi a leggere queste righe, Enrico Letta, il cui governo io difenderò a costo se non della vita di qualche altra variabile decisiva del mio esistere terreno; ma stavolta non ci siamo.

Fassina non lo sa, mettiamola così. No, non lo sa dove porti quella sua voce dal sen fuggita. Porta dove lui non si aspetterebbe mai: a Marx, prima di tutto. Il vecchio critico dell’economia politica – perché questo è Marx e questo abbiamo imparato leggendo “Zur Kritik der Politische Oekonomie”, a cominciare dalla geniale “Vorwort”, del 1859 – aveva capito già molto: le tasse alte ammazzano l’economia capitalistica e, come tali, devono essere riconsiderate alla luce non della macchina leviatanica dello Stato, ma del dinamismo del modo di produzione (Produktionsweise) capitalistico. Questo è il punto, cari apologeti della scissione dell’anima: non si può essere, da un lato, globalisti, e dall’altro, fiscalisti. Bisogna scegliere: se vuoi la macchina leviatanica a briglia sciolta, scordati la concorrenza tra i sistemi di produzione, di commercio internazionale e di fiscalità. Senza mettere in concorrenza questi ultimi, si fa poca strada e, con stati bulimici e obesi, si finisce al bordo della strada, sfiatati e senza speranze. Tradotto: l’Italia di oggi.



Il capitalismo, come “modo di produzione”, è quella modalità di produrre e riprodurre forza produttiva, capitale cognitivo e ricchezza attraverso le sue stesse contraddizioni; se tu esci fuori dalla contesa e crei l’oasi del parassitismo e del magna-magna elevato a sistema di comando e controllo delle libertà (al plurale) dei cittadini – e parlo del solito arcinoto Leviatano – spacchi tutto e ti incarti.

Non basta. Un certo Arthur Laffer, docente alla California University, durante la prima fase del reaganismo (che Dio lo benedica sempre), aveva messo giù uno schizzetto, narra la leggenda metropolitana o meno, non saprei dire, su un tovagliolo di carta in un ristorante, e l’altro commensale era Reagan. Allora, funziona così: nelle ascisse è indicato il gettito fiscale previsto, nelle ordinate il gettito fiscale imposto. Bene, oltre una certa soglia, non vale più la pena lavorare, e il popolo lavoratore – quello che popolava l’immaginario politico della sinistra, per intendersi – molla tutto e si ritira, in buon ordine o meno, ma si ritira. Non vale più la pena lavorare. Se tu, Stato, ti pappi due terzi dei miei guadagni e pretendi da me fedeltà assoluta, io non ti abbatto, primo perché non ce la faccio, da solo, secondo, perché nei tuoi tribunali, mi farebbero a pezzi e, con me, una decina di generazioni provenienti dal mio ceppo natale, ma questo bisognerebbe fare.

Tutto qua: gli italiani, tutti, comunisti, berlusconiani, onesti e meno onesti, cattolici e non, tutti, la pensano così. I comunisti non lo dicono, non fa fino e somiglia troppo a quel certo Citizin Berlusconi, che io voglio morto, allora silenzio tombale. Ma questo penso. E Fassina – con voce dal sen fuggita – si fa scappare anche questo intrigante e intrigato sentire. È come la telefonata dell’amante: dai, bella, su non insistere, stasera non posso. Però, intanto, ci pensi, eccome. Uguale.

Avete capito, no? È una questione di libertà. Non c’entra l’ideologia, sta tutto dentro la scorzosa realtà. Noi non abbiamo oggi soltanto il 55% di gettito fiscale, perché tra tassazione diretta e indiretta, Iva, e imposte locali, arriviamo tranquillamente al 70%: grazie Laffer! Noi siamo il Paese in cui si paga il canone Rai e si tollera questa fetenzia come divinazione del sublime Leviatano, mentre in Europa si affollano i pensieri dei vari esperti in diritto europeo – si badi, stiamo parlando della vacca sacra: l’Europa! – che stanno giungendo alla conclusione che trattasi di aiuti di stato, null’altro, un piano Marshall alla rovescia: tolgo al popolo per ingrassare il già obeso Stato. Ecco la contabilità dei morti sul campo. Tutto qua. Basta osservare, zero ideologie.

Le tasse non sono un tema economico e men che meno econometrico, e lo dico con il sommo rispetto che ho dei numeri e della loro adeguata lettura: è un tema politico, se mai ve ne furono. E addirittura un gigantesco tema-manifesto di filosofia della politica: si pensi alla rivoluzione americana no taxation without representation. È una questione che vorrei ribattezzare davvero di lana caprina, perché qui la capra – cioè noi, il popolo nelle sue infinite variabili sociali, antropologiche ed economico-finanziarie – viene tosata per bene.

Olof Palme voleva fare questo al capitalismo: tosiamo la pecora e rimettiamo a posto tutto. Ma anche Olof Palme non era marxista e forse Fassina lo sapeva, quando stava per liberarsi della voce (sexy) dal suo sen fuggita.