Guarda un po’ le combinazioni, a volte. Un paio di settimane fa ho scritto un articolo, sostanzialmente avvalorando la tesi in base alla quale se qualcuno avesse interesse ad attaccare l’Italia durante l’estate, il campo migliore su cui agire sarebbe stato quello bancario, stante il livello di sofferenze ormai alla soglia critica del 9% e con 370 miliardi di titoli di Stato italiani nei bilanci degli istituti del Bel Paese. Sul finale, poi, adombravo un dubbio: non sarà che il cavallo di Troia potrebbe rivelarsi Monte dei Paschi e quei 4 miliardi e rotti di Monti bond su cui la Commissione Ue, stranamente, non si è ancora espressa? Detto fatto, ieri abbiamo scoperto che per Bruxelles il piano di ristrutturazione di Mps è «troppo morbido sul fronte dei compensi dei manager, del taglio dei costi e del trattamento dei creditori» e senza modifiche «urgenti» il Commissario alla concorrenza, Joaquin Almunia, aprirà una procedura di infrazione della durata di sei mesi che potrebbe portare a sanzioni o al rimborso forzato dei 3,9 miliardi di Monti bond. Ovvero, al default dell’istituto o alla sua cannibalizzazione da parte di investitori esteri.
Lo scriveva il solito, ineffabile Financial Times, dando notizia di una lettera di Almunia al ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, datata 16 luglio. Guarda caso, quindi, la missiva risale a due giorni prima dell’assemblea dell’istituto senese che ha tolto il tetto del 4% per il diritto di voto dei soci privati. Il Commissario, chiamato a valutare se i Monti bond concessi da Roma siano in linea con le regole europee per gli aiuti di Stato, scrive – secondo il quotidiano della City – che «per consentire alla banca di ristabilire la fattibilità, l’attuale piano deve ancora essere migliorato».
Ora, che Mps sia una banca problematica è noto da tempo e non serviva Almunia per scoprirlo, che in passato siano stati compiuti errori è innegabile (contratti derivati e acquisizione di Antonveneta su tutti), il problema è che verrebbe da chiedere dove fosse l’integerrimo Commissario alla concorrenza o lo stesso Financial Times quando la Germania salvava Commerzbank con soldi di Stato, o quando Dexia veniva salvata con aiuti pubblici o quando ancora l’Ue salvava le banche spagnole con soldi comunitari senza che Madrid dovesse contabilizzare le garanzie nella ratio debito/Pil. Dov’era?
È inutile prendersi in giro, la storiella è nota, basta avere la decenza di ammetterlo. Non potendo per statuto prestare denaro direttamente ai paesi membri, da tempo la Bce si è semplicemente fatta furba e ha bypassato la questione attraverso un tacito accordo di silenzio-assenso. Che è valso per tutti. Le banche spagnole, ad esempio, hanno ottenuto 150 miliardi di euro dalla Bce, attraverso un processo che vede lo Stato garantire il debito degli istituti e le loro cartolarizzazioni, le quali vengono presentate alla Bce come collaterale per ottenere denaro. E cosa ci fanno le banche con quel denaro: mettono a posto i bilanci? No, comprano debito pubblico spagnolo, così lo spread cala e nessuno rompe l’anima a Draghi affinché agisca sul mercato secondario.
Ed è proprio di pochi giorni fa la notizia che gli istituti di credito iberici hanno aumentato del 10% le loro detenzioni di debito pubblico governativo nei primi tre mesi di quest’anno, passando da 200 miliardi agli oltre 225 di fine marzo, il 40% del totale. E in Grecia, cosa è successo? La stessa cosa. Non solo l’Ue non conteggia le liabilities contingenti nella ratio debito/Pil nazionale, ovvero non vengono contabilizzate le garanzie statali sul debito delle banche per le loro continue emissioni obbligazionarie, ma nemmeno il denaro ottenuto dopo che quei titoli sono stati postati presso la Bce come collaterale per ottenere moneta. E gli altri? Uguale identico. Quando Dexia è finita nei guai, Belgio, Francia e Lussemburgo hanno salvato la banca prestandole dei soldi. Pensate che nei bilanci degli Stati quel denaro sia stato contabilizzato come prestito? No, come investimento, garantendo quindi un aumento degli assets statali e non un aumento del debito pubblico, quindi della ratio debito/Pil.
Scusate, ma, seppur mascherato, questo non è un programma di stimolo, non è un QE in piena regola, non è un colossale caso di aiuto di Stato o aiuto comunitario a soggetti privati? Tanto più che oggi la Bce detiene l’80% dei suoi assets a valore facciale e con lo status “risk free”, ovvero esente da rischio di credito. Peccato che così facendo le banche ottengano soldi al tasso “risk free” del 100% del prestito, anche se hanno postato come collaterale carta straccia e che ora quella paccottiglia stia nel bilancio dell’Eurotower a valore facciale e non di mercato. Ma tant’è, certe cose è meglio non ricordarle per Almunia e per il Financial Times. Ma andiamo avanti.
Al culmine del ridicolo, ieri la Commissione europea – attraverso un suo portavoce – ha dichiarato che «non commenta le fughe di notizie». Come dire: tutto vero, ma non possiamo ammetterlo, usiamo come sempre in questi casi il Financial Times per mandare messaggi nemmeno troppo in codice al Governo italiano. Due anni fa fu la Bce con la sua lettera-diktat, quest’anno la Commissione europea per la vicenda Mps: a quanto pare, ogni due estati, ci tocca finire nel mirino. Soprattutto quando il Paese è guidato da un governo non gradito all’establishment. Il Financial Times, poi, ultimamente sembra averci preso gusto: prima lo scandalo derivati con Draghi e la Cannata sparati in prima pagina manco fossero dei delinquenti comuni, poi la vicenda kazaka (nemmeno per le extraordinary renditions della Cia si scomodarono così quelli del quotidiano della City), ora la soffiata su Mps. Saranno tutte coincidenze, per carità del Signore, ma cominciano a sembrarmi un po’ troppe.
Nonostante tutto, il Paese sembra però reggere. Ieri lo spread tra Btp e Bund è sceso a 275 punti base dopo il buon esito dell’asta di Bot a 6 mesi, con il Tesoro italiano che ha collocato tutti gli 8,5 miliardi di titoli semestrali allo 0,799%, il minimo da maggio, con un bid to cover Bot a 1,47, in miglioramento dal 1,36 di giugno. Lo stesso Bot veniva indicato venerdì sera sul grey market, in un contesto di scambi ridotti, al rendimento medio dello 0,73%: basti ricordare che all’asta di un mese fa i Bot semestrali furono collocati all’1,052%. Oggi però potrebbe essere il giorno della tempesta perfetta, anche se non ci credo. In attesa che la Corte di Cassazione si pronunci sul processo Mediaset, ovvero sul destino politico di Silvio Berlusconi e con lui del governo Letta, il Tesoro emetterà Btp per un ammontare tra i 5-6,75 miliardi di euro, tra cui anche il nuovo decennale, mentre dopodomani toccherà a Madrid emettere Bonos sul mercato.
Potenzialmente, queste due emissioni dovrebbero essere sostenute da abbondante liquidità proveniente da titoli in scadenza e pagamenti di cedole, ma per Vincenzo Longo, analista di Ig Markets, «anche se Berlusconi ha detto che una condanna non pregiudicherebbe il governo, c’è un po’ di pressione prima della sentenza della Cassazione. Il combinato effetto delle vacanze estive e dell’incertezza legata alla decisione della Cassazione potrebbe tenere lontani gli investitori esteri». Insomma, paradossalmente l’asta di oggi servirà più per il suo effetto psicologico che per quello fattivo di collocamento del debito e potrebbe rivelarsi davvero uno spartiacque: chi infatti si trincera dietro il buon andamento dello spread, farebbe meglio a ricordare che esattamente in questo periodo di due anni fa, il differenziale tra Btp e Bund era in area 260 punti, quindi 10-15 punti base in meno di oggi. Quanto poco ci sia voluto a volare in area 400 e come sia andata a finire l’estate 2011 lo ricordiamo tutti. Questa volta potrebbe non essere differente.