L’annuale rapporto del Fondo monetario internazionale divide l’eurozona in due: da una parte i paesi “core”, dall’altra quelli dell’area “periphery”. L’Italia è stata collocata tra questi ultimi: una scelta che fa discutere e che a quanto pare è arrivata dopo un intenso dibattito tra l’Ue e l’istituzione di Washington. Per Alberto Bagnai, docente di Politica economica all’Università G. D’Annunzio di Pescara, «l’Europa è e resta a due velocità» e la fine dell’euro «è solo questione di quando». Tuttavia, nonostante si trovi nella “periferia”, a luglio è stata l’Italia a guidare in Europa la ripresa della fiducia nelle prospettive dell’economia: l’indice Esi (Economic sentiment indicator) ha infatti fatto segnare un progresso di 2,9 punti rispetto agli 1,2 della media dell’Eurozona.
Professore, il Fondo monetario internazionale ci ha messo nella “periferia” dell’Europa: ce lo meritiamo?
Il Fmi fotografa uno stato di fatto; il suo giudizio non deve essere preso con una connotazione particolarmente spregiativa. Uso una metafora per farmi capire.
Prego.
Secondo la teoria economica, per le nazioni dovrebbe succedere un po’ quello che succede con le persone.
In che senso scusi?
Una giovane coppia che si sposa e deve mettere su casa, in genere si fa prestare i soldi dai genitori. Succede così anche per gli stati.
Ci spieghi meglio.
Normalmente, quelli più evoluti sono esportatori di capitali, prestano cioè soldi a quelli che sono un po’ più arretrati, che devono magari recuperare un gap infrastrutturale o di altro tipo. Questo è un processo abbastanza fisiologico. La coppia matura che presta i soldi è il Paese centrale, il Paese periferico è quello che si indebita per diventare, tra virgolette, adulto.
È quanto successo in Europa?
L’eurozona, anche attraverso la moneta unica, ha facilitato la circolazione di capitali proprio per favorire processi di questo tipo. Ha permesso a paesi più progrediti, come la Germania, di investire i loro capitali in quelli meno progrediti, in Grecia per esempio. Ma anche in Italia o in Spagna, favorendo così lo sviluppo di questi paesi.
Lei quindi è d’accordo con il Fmi?
Dico solo che quando dice che l’Italia è nella periferia dell’eurozona non fa altro che dire che fa parte di quel gruppo di paesi che importano capitali da un Paese centro che è la Germania. Se questo è fisiologico, c’è però anche un aspetto patologico.
Quale?
Normalmente, secondo la teoria economica, a un certo punto i paesi arretrati raggiungono quelli avanzati e quindi questo processo si smorza. In Europa questo non è successo.
In pratica sta dicendo che l’Europa viaggia a velocità diverse, non è così?
Certo che ci sono due velocità. L’Europa è e resta a due velocità. La circolazione dei capitali che doveva permettere a chi era rimasto indietro di andare alla stessa velocità degli altri, in realtà ha prodotto altri effetti: dopo vent’anni di libera circolazione di capitali e dieci di euro, la Grecia è sbriciolata. In più…
In più?
Il fatto che siamo legati rende questo gioco non a somma zero, ma a somma negativa, perché quando i paesi del sud andranno in crisi porteranno, come stanno portando, in recessione anche quelli del nord.
Se questa è la strada, quale sarà il destino dell’euro?
La fine dell’euro non è un problema di se, ma o forse: è solo un problema di quando. Sia a livello scientifico che politico questa consapevolezza è ormai raggiunta da quasi tutti. L’unico problema che hanno i politici è quello di comunicarlo ai propri elettori senza perdere la faccia.
Non è curioso che la Francia, con le difficoltà che sta attraversando, rimanga tra i paesi del centro?
La Francia, non solo a parere mio ma anche di molti altri economisti, è senz’altro un Paese della periferia. Chi blatera di asse franco-tedesco ignora una cosa molto semplice: non può esserci un asse tra un creditore e un debitore. La Germania è un Paese creditore, la Francia un Paese debitore. Fra l’altro con le finanze pubbliche molto più dissestate delle nostre. Le faccio solo un esempio.
Dica.
Il Fmi prevede che nel prossimo quinquennio l’Italia avrà un surplus primario di oltre tre punti di Pil, la Francia tra lo 0,2% e lo 0,3%. La Francia, quindi, è più vicina a una situazione di dissesto finanziario di quanto non lo sia l’Italia. E Hollande sta facendo una politica di austerità forsennata che sta spingendo i francesi a votare Marine Le Pen. Inoltre, la Francia ha l’aggravante di non sapere di essere un Paese della periferia, o comunque non ammette di esserlo. E questo le crea enormi problemi politici.
Secondo altri indicatori, come l’indice ESI (Economic Sentiment Indicator) o il BCI (Business Climate Indicator) piuttosto che uno studio di Prometeia, l’Italia dimostra una maggiore fiducia nella ripresa rispetto agli altri paesi dell’Eurozona. Come si concilia questo dato con il giudizio del Fmi?
Guardi quelli sono indicatori di carattere congiunturale, che fotografano un periodo molto breve. Sorprende un po’ perché io che incontro molti imprenditori e persone con responsabilità economiche non vedo in giro tutta questa fiducia. Vediamo se tra un mese questi indicatori saranno ancora così ottimistici. I problemi strutturali rimangono.
Quali problemi?
Rimane la debolezza della nostra economia per via del debito estero. E rimane purtroppo un altro dato strutturale: l’adesione all’euro che ci penalizza.
L’euro è una zavorra?
È una trappola e dobbiamo liberarcene al più presto. Altrimenti sarà troppo tardi. Saremo così debilitati da non avere più le forze per uscirne. E tutto diventerà più difficile rispetto a una situazione come quella del 1992, quando lo sganciamento dello Sme ebbe come effetto una ripresa quasi immediata. Già oggi la situazione è molto critica: prima si scappa, meglio è.