Punto primo: il disavanzo deve restare al 3% sul Pil, anzi qualche centesimo meno. Gli spazi di manovra che l’Unione europea ha concesso al governo italiano hanno questo limite invalicabile. Dunque, guai a pensare che adesso sia possibile ridurre le tasse, aumentare le spese, sforare il deficit, aumentare il debito (che continua a crescere, soprattutto per colpa della recessione), come molti commenti improvvisati venuti dal mondo politico hanno lasciato credere. Va rimesso sui suoi binari il treno della speranza partito subito dopo l’annuncio che sarebbe stato possibile rinviare il pareggio del bilancio e aumentare le spese per investimento utilizzando le risorse dell’Ue. Tuttavia, non è vero che nulla cambia e non si può fare niente.
1) Non va sottovalutato il diverso atteggiamento dell’Unione. Bruxelles non dice più solo di tagliare, ma anche di investire. Si poteva ottenere di più? Forse, tuttavia non c’è bisogno di essere seguaci dell’economia comportamentale, disciplina oggi molto in voga, per capire che lo spirito del popolo può tirare un sospiro di sollievo, in altri termini che le aspettative possono cambiare in meglio. Di quanto?
2) Per raggiungere il pareggio strutturale (al netto degli interessi), il governo avrebbe dovuto togliere almeno un altro mezzo punto di Pil dal bilancio pubblico. Ma, secondo le stime della Banca d’Italia e dell’Ue, “in assenza di interventi si registrerebbe un progressivo deterioramento legato all’accelerazione della spesa”, tale da far riapparire un deficit strutturale nel 2015. Il rinvio, pur dentro il tetto del 3%, lascia a disposizione circa un punto di Pil. In sostanza, possiamo evitare un’altra stangata, sempre a condizione di tenere sotto controllo il rapporto tra entrate e uscite. E sempre che il rialzo dei tassi d’interesse (prevedibile se davvero la Federal Reserve comincia l’anno prossimo a stringere il rubinetto) non inneschi una nuova crisi da spread. In quel caso l’aggettivo “strutturale” diventa ininfluente, perché bisognerà comunque trovare le risorse per pagare un crescente servizio del debito.
3) Ma, se le cose non peggiorano, non sarà necessario aumentare ancora le imposte. Sarà anche possibile ridurle? Qui la risposta non dipende dalla flessibilità concessa da Bruxelles, ma dalle scelte politiche del governo. Quali sono le priorità per spingere la domanda interna? Alleggerire la pressione tributaria è uno strumento indispensabile, ma come? Riducendo il cuneo fiscale, senza ripetere il flop del governo Prodi nel 2006 (quando ha tagliato cinque punti ma non sono aumentati gli investimenti e i posti di lavoro), oppure è meglio rivedere le tasse sui redditi, cominciando dal basso, ma salendo fino a toccare anche i ceti medi, cioè la pancia del Paese, quella che consuma di più?
4) Se il governo conferma l’annunciata volontà (anzi l’impegno assunto con il Parlamento) di allentare la leva fiscale, allora gli spazi vanno trovati nella spesa pubblica corrente. E di grasso da togliere ce n’è davvero molto, come ha annunciato il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni nell’audizione di ieri in Parlamento. Bruxelles toglie l’ansia da prestazione e lascia spazio per attivare davvero la spending review. Enrico Letta dovrebbe dire la verità agli amministratori locali che si lagnano dei tagli, ai magistrati che non vogliono chiudere tribunali utili solo a creare presidenti, ai professori, ai medici, agli infermieri, alla pletora di dipendenti pubblici la cui produttività è talmente negativa da oscurare gli sforzi dei lavoratori e degli imprenditori dell’industria esportatrice. E la verità è che l’Italia non ha ancora ridotto (né reso più efficiente) la spesa pubblica corrente sul prodotto lordo, a differenza dalla Germania e dalla Svezia, cioè i paesi che hanno ripreso a crescere dopo la crisi, hanno raggiunto la piena occupazione e hanno salvato lo stato sociale, dimostrando urbi et orbi che si può risolvere l’equazione considerata impossibile in Italia. L’ammorbidirsi dell’austerità, dunque, toglie ogni alibi. Il governo e i partiti sono messi di fronte a se stessi, alle proprie scelte, alla coerenza dei propri comportamenti.
5) La richiesta europea di mettere in moto gli investimenti non è affatto una deviazione rispetto alla via maestra. Al contrario, tutti sanno che tra i motivi importanti della scarsa competitività dell’Italia c’è la carenza delle infrastrutture e l’inefficienza dei servizi (anche quelli privati). Ora possiamo usare i soldi europei come leva. Ma occorre saperli gestire. L’esperienza dei fondi strutturali è pessima. Quindi bisogna cambiare sistema. Come? Uno dei problemi è senza dubbio l’eccessivo decentramento. Lasciare i quattrini e i progetti in mano alle amministrazioni locali ha prodotto sprechi e anche di peggio. A questo punto, sarebbe meglio centralizzare le scelte e la gestione degli investimenti, affidandoli a un’autorità che risponda direttamente del suo operato al parlamento e agli elettori. Il ministro dei Trasporti e delle infrastrutture, Maurizio Lupi, che ha salutato con entusiasmo la decisione dell’Ue, ha un compito molto importante e delicato nelle sue mani. Dovrebbe aprire subito una riflessione su come agire in tempi rapidi, con metodi trasparenti ed efficaci, ma soprattutto con determinazione politica. Con decisionismo. Sì, chiamiamolo così. Non è un peccato, al contrario è una virtù, soprattutto in Italia. Niente più vicende come la Tav o, tanto meno, la Salerno-Reggio Calabria.