Martedì la Borsa del Cairo ha chiuso al +4,94%, nonostante la situazione nel Paese stesse per precipitare nel caos. Qualcuno ha ritenuto fosse il caso di comprare prima del d-day, accaparrandosi titoli di aziende nazionali strategiche a prezzo di saldo e attendendo il nuovo che verrà – per la seconda volta nell’arco di poco più di due anni – forte di quei titoli in tasca e di un uomo come El Baradei a fare da burattinaio, prima anti-Mubarak, ora anti-Morsi. O magari qualcuno ha solo speculato, forte dello storno di opzioni call sul petrolio, casualmente in rialzo al massimo da 14 mesi a causa delle tensione a Suez e in tutta l’area. Com’è, come non è, anche ieri, quando i carri armati giravano per il Cairo, in Borsa niente panico: -0,3%, prese di beneficio. Ma sempre martedì, alla Borsa di Stoccarda, qualcuno ha anche venduto obbligazioni greche come se non ci fosse un domani, nonostante le dichiarazioni poco incoraggianti della signora Merkel sulla prossima tranche di aiuti alla Grecia siano state diffuse a mercati europei chiusi. Certo, il Fmi aveva anticipato qualcosa ma vendere il decennale a quota 54 centesimi sull’euro, il massimo da tre settimane è stato davvero un bel colpo: chissà quale grande istituzioni finanziaria è riuscita nel capolavoro di sbarazzarsi di quel pattume?



È il mercato, signori e non possiamo farci nulla: funziona così. Ne sa qualcosa il povero Portogallo, il cui decennale ieri pagava un rendimento dell’8%, +0,3% rispetto al pari durata della Nigeria, emesso martedì! E via che a Stoccarda si svendeva anche Lisbona, altra paccottiglia tolta dai bilanci. Ma nonostante tutto questo bailamme, io continuo a tenere gli occhi incollati sugli Stati Uniti. Per due motivi. Primo, il Datagate, che altro non è se non la scusa per Washington di flettere un po’ i muscoli con gli alleati, ma soprattutto per mettere a budget ancora un po’ di spesa a deficit per l’intelligence e la guerra permanente al terrore, visto che l’opzione siriana si è un po’ rammollita dopo che Oltreoceano hanno capito che stavolta Putin faceva sul serio e che serve warfare per taroccare ancora un po’ i conti federali. Secondo, le acrobazie della Fed per cercare di non far esplodere la bolla del debito, il vero motore immobile di quanto sta accadendo ovunque nel mondo, piaccia o meno: Portogallo incluso.



Si sono infatti addensate nuove nubi sul fronte obbligazionario e impera ulteriore confusione sui mercati globali, dopo che cinque delle principali banche del mondo hanno reso noto che, in base a loro proiezioni, la disoccupazione negli Usa calerà sotto il 7% già nel quarto trimestre di quest’anno. Un dato spiazzante, visto che lo scorso mese il numero uno della Fed, Ben Bernanke, disse chiare lettere che il programma di stimolo cesserà a metà del prossimo anno, quando il tasso di disoccupazione «potrebbe essere attorno al 7%». Non la pensano così invece Bank of Tokyo-Mitsubishi Ufj, Barclays, Citigroup, Deutsche Bank e Ubs, i cui analisti si dicono certi che quel livello sarà raggiunto sei mesi prima di quanto prospettato dalla Federal Reserve. Per Drew Matus, capo economista di Ubs Securities negli Usa, «questo porrà ulteriori problemi di comunicazione per la Fed e ancora una volta quei problemi sarà tutti fatti in casa».



Non a caso, ieri il Treasury decennale ha conosciuto un’altra fiammata in area 2,5% di rendimento e molti analisti cominciano ad avvertire che i detentori di bonds dovranno prepararsi a ulteriori cali del prezzo delle securities: «Il calo della disoccupazione porrà sotto pressione la Fed affinché chiuda il programma di stimolo in anticipo», certifica Joseph La Vorgna, economista presso la sede di Deutsche Bank a New York. Il quale azzarda anche un’ipotesi di road map: «Come conseguenza della disoccupazione al 7%, il rendimento del decennale Usa salirà al 2,75% entro fine anno e al 3,25% entro il prossimo giugno, dopo che in gennaio la Fed terminerà gli acquisti». Per Matus, invece, proprio i timori di un aumento incontrollato degli yield, potrebbe portare la Fed a decidere per acquisti – magari di volume ridotto – fino a metà del prossimo anno.

E mentre qualcuno come James Paulsen, capo degli investimenti alla Wells Capital Management (340 miliardi di dollari di assets gestiti), ritiene che «la fine del QE è una pietra miliare, non qualcosa di cui aver paura. Dal punto di vista di un investitore equity, significa che l’economia è ora più forte», sono in molti a non condividere questo ottimismo. Anche perché lo scorso mese il tasso di disoccupazione è sceso al 7,5% dal 7,6% di maggio, con 165mila posti di lavoro in più e già oggi le principali previsioni per il quarto trimestre parlano di un tasso che varierà nel range tra 6,5% e 7,8%, con la previsione media su un consensus di 72 economisti a quota 7,3. Il problema sta non solo nei rendimenti in salita, ma anche nel volume degli acquisti della Fed, la quale mensilmente acquista 40 miliardi di dollari di securities legate a mutui e 45 di debito a lunga scadenza. Inoltre, c’è il timore che un calo nella partecipazione alla forza lavoro, ad esempio il ritiro dal mercato dei cosiddetti “baby-boomers”, stia aiutando il calo del tasso di disoccupazione erodendo però quella che possiamo definire “la base imponibile dell’occupazione”, mostrandoci un calo troppo veloce rispetto a un’economia che cresce solo del 2% l’anno. E non è preoccupazione da poco, visto che in maggio la proporzione di popolazione nel mercato del lavoro è scesa al 63,4% dal 66,2% del gennaio 2008, crescendo solo dello 0,1% in aprile ma con possibili nuovi cali in vista, visto che la metà di quel dato di flessione è data proprio da forze strutturali, come l’invecchiamento della popolazione, mentre l’altra pare frutto di influenze cicliche.

Insomma, se il calo sarà dato solo dalla diminuzione di partecipanti alla forza lavoro, cosa farà la Fed? Bloccherà lo stesso gli acquisti? E l’eccessiva attenzione a indicatori del mercato del lavoro, come la crescita del monte salari, non rischia di distorcere la percezione? Una cosa è certa, una situazione tale non può che portare con sé – se la Fed non chiarirà al più presto le sue intenzioni – soltanto ulteriore volatilità sui mercati. Tanto più che ormai, dopo cinque anni di esplicito supporto ai mercati e stabilizzazione dei tassi, gli investitori non saprebbero nemmeno come operare in un mondo in cui la Fed non è più la fonte principale della domanda fino a scadenza di securities e dove la spesa in deficit sta entrando nella fase terminale dell’esperimento.

A oggi, giova ricordarlo, su una media semestrale, la Fed sta monetizzando il 70% di tutta l’offerta netta misurata in securities equivalenti al decennale, un livello mai toccato prima nella storia. Insomma, la Fed “fa” mercato per quasi i tre quarti del totale di acquisto: da qui il dilemma, se si blocca il programma i rendimenti rischiano di andare alle stelle e la bolla esplodere. Se non si blocca, si stanno creando le condizioni per la prima economia di mercato completamente basata sullo Stato. Non ci credete? Non pensate che la Fed sia il driver unico del mercato e che ogni parola, mai detta a caso, che giunga dai suoi esponenti sia in grado di indirizzare le Borse mondiali? Bene, guardate questo grafico: ci mostra chiaramente le montagne russe di Wall Street in base alle dichiarazioni di membri del Fomc, a volte pro-Qe, a volte pro-rallentamento.

 

 

Ma c’è dell’altro. Ovvero il fatto che, al netto dei dati macro dell’economia che parlano la lingua della recessione, il Qe non è servito proprio a nulla per l’economia reale: per il semplice fatto che le banche Usa, beneficiarie degli acquisti della Fed, hanno parcheggiato presso la Banca centrale più di 1,8 triliardi di dollari, denari per depositare i quali vengono anche pagati gli interessi da Bernanke. Insomma, una larga parte del denaro del Qe non è affatto entrata in circolo nel sistema economico, è ferma alla Fed con grande gioia dei banchieri che scaricano schifo dai bilanci per 85 miliardi di dollari al mese e prendono pure soldi per depositare e tenere fermo il frutto della stamperia di Stato.

Fu infatti nell’ottobre del 2008 che il buon Ben Bernanke annunciò che la Federal Reserve avrebbe cominciato a pagare interessi per le riserve che le banche avrebbero tenuto presso il suo istituto: nemmeno a dirlo, questo comportò un’esplosione delle stesse. A metà del 2008, le banche Usa nel loro complesso avevano riserve in eccesso presso la Fed per meno di 2 miliardi di dollari, oggi ne hanno 1,8 triliardi! In meno di cinque anni, sono aumentate di mille volte circa! Basti guardare graficizzata qui questa follia totale.

 

 

Ora capite perché nonostante la Fed stia stampando come una copisteria durante la campagna elettorale, l’inflazione negli Usa sia ancora sotto controllo? La maggior parte del denaro del Qe non è mai entrata nel sistema, la Fed ha di fatto pagato le banche perché non lo iniettassero, se non nel circuito vizioso della Borsa per vendere al mondo i nuovi record quotidiani del Dow Jones ed evitare che il castello di sabbia crollasse. Il problema è che quel denaro prima o poi dovrà passare nell’economia reale, a meno che la Fed non si inventi qualche strana operazione di drenaggio o sterilizzazione degna del Dottor Stranamore. E quando accadrà, il rischio di uno tsunami inflattivo sarà decisamente alto. Guardate questo altro grafico: ci mostra la crescita della massa monetaria M2 negli Usa nelle scorse decadi, un flusso abbastanza fisso e regolare. Ma cosa succederebbe se anche solo la metà di quanto parcheggiato alla Fed di riversasse nel sistema, nell’economia reale?

 

 

Quindi, per disinnescare la bomba obbligazionaria, la Fed continua a stampare moneta e acquistare Securities, ma continua anche a pagare interessi alle banche affinché tengano parcheggiate le riserve: quindi, alla bolla dei bond va aggiunta la bomba a orologeria dell’inflazione, non c’è che l’imbarazzo della scelta. E nonostante le banche prendano solo lo 0,25% di interesse, in un contesto di tassi quasi a zero è preferibile guadagnare poco piuttosto che mettere a rischio quel denaro con prestiti a rischio verso imprese e cittadini: oltretutto, rischiando di fare detonare l’inflazione e rovinando i piani di quel munifico amico che è Ben Bernanke. Ricordatevi, 1,863 triliardi di dollari di riserve in eccesso, creati dal nulla e destinati a finire prima o poi da qualche parte: e se i tassi dovessero salire? La Fed dovrebbe pagare di più alle banche affinché li tengano ancora parcheggiati. Peccato che se per qualche shock i tassi dovessero salire drammaticamente e di colpo, o la Fed paga molto di più o le banche si troverebbero costrette a prestare quel denaro e a farlo fluire nell’economia reale, nel sistema.

Finora 85 miliardi di dollari di acquisti al mese non hanno sortito particolari effetti a livello inflattivo, ma 1,863 triliardi di dollari sono un’altra cosa, anche se iniettati lentissimamente, a poco a poco. Il dollaro crollerebbe, l’inflazione andrebbe alle stelle e Bernanke rischierebbe di trascinare gli Usa dentro Weimar: a quel punto, lo sbocco sarebbe solo uno. Come ci insegna la storia. Ecco quindi il dilemma che sta facendo succedere tutte queste cose nel mondo, una serie di diversivi di vario genere che ci intrattengano mentre a Washington si decide se il sistema finanziario deve continuare a esistere così com’è oppure no, oppure qualche “too big to fail” può essere sacrificato per il bene supremo del dollaro.

Continuare a stampare, aumentando ancora quelle riserve in eccesso o smetterla e rischiare di far esplodere la bolla obbligazionaria? Alla Fed l’ardua risposta. Per nostra sfortuna.