Siamo alla fine del primo semestre del 2013. E quello che archiviamo è il migliore per la borsa Usa dal 1999. Mai visto, in questi ultimi anni, un rialzo così pronunciato. Tutto bene, allora? Allo stesso tempo, l’indice Chicago PMI, cioè l’indice del manifatturiero Usa, scende a 51,6 da 58,7 del mese scorso, un tonfo che è il peggiore degli ultimi quattro anni. Come spiegare dati tanto contrastanti? Come una riprova di un’affermazione molto semplice già fatta in altri articoli: la finanza e i suoi andamenti non hanno ormai più alcuna corrispondenza con gli andamenti dell’economia reale. E com’è avvenuto questo scollamento tra finanza ed economia? Cosa lega finanza ed economia? La moneta, questo è l’elemento cardine di raccordo tra finanza ed economia. E quando la moneta non è un punto di equilibrio tra questi due mondi, allora essi hanno difficoltà di comunicazione tra loro e quindi operano in modo parallelo, quasi senza considerare l’uno le difficoltà dell’altro, con danno per entrambi.



Il fatto che la moneta non sia più un punto di equilibrio tra economia e finanza dipende dal comportamento criminale delle banche centrali, le quali hanno inondato la finanza di liquidità, ben prima dell’inizio della crisi. La Bce, fin dalla nascita dell’euro ha prodotto costantemente un eccesso di liquidità, preparando e favorendo la crisi attuale. Ripresento qui un grafico già presentato mille volte (e che ripresenterò mille volte). Questo grafico è fondamentale per comprendere la realtà della crisi nella quale siamo travolti e per sbugiardare immediatamente la fantastica serie di menzogne che quotidianamente ci vengono propinate sulla crisi.



Il cuore del problema è la creazione di un eccesso di moneta, e il modo in cui questa moneta viene impiegata (a favore del sistema bancario). Cioè una moneta che serve sempre più alla finanza e sempre meno all’economia reale. Una moneta sempre più strumento finanziario e sempre meno mezzo di scambio. Ma il primo punto del problema, l’eccesso di moneta, è quello centrale, soprattutto perché implica e sottintende la grossa questione su cui diverse volte ho ragionato: la questione della definizione della moneta.

Comunque non si può prescindere da questo nodo: o si affronta il cuore di questo problema, oppure non si sta risolvendo nulla. E i roboanti annunci sentiti in settimana riguardo i grandi successi ottenuti in sede europea appaiono per quello che sono: chiacchiere. Peccato, perché sembrava che il governo Letta potesse avere i numeri culturali, oltre a quelli parlamentari, per iniziare una sterzata. Ma l’illusione è durata ben poco, visto che sono iniziati a fioccare i proclami del governo sul fatto che qualsiasi intervento in politica economica sarebbe stata fatta nel rispetto del patto di stabilità. Questo è il vicolo cieco in cui si è cacciata da almeno tre anni tutta la politica italiana, il vicolo cieco del pareggio di bilancio, scelleratamente inserito nella nostra Costituzione.



Il vicolo cieco è quello di inseguire o tentare di sospingere l’araba fenice di una crescita ormai perduta, oppure tentare di tener i conti in ordine. Si sono accorti (ma ci voleva in genio?) che fare crescita, per l’economia reale senza occupazione, è una chimera. E si stanno pure accorgendo che la disoccupazione diventa un problema di ordine sociale e di ordine pubblico (ma questo non l’hanno ancora capito bene, ottusi come sono nella loro ideologia). Così si finisce nel ridicolo: urla e strepiti per cancellare l’aumento dell’Iva, come se fosse la fine del mondo (sarebbe solo una accelleratina verso il disastro, in sostanza non cambierebbe molto sulla strada della depressione); alla fine il risultato è quello di rimandare questo aumento a ottobre: e cosa cambia a ottobre? Perché questo aumento, tanto nefasto per l’economia reale ora, sarebbe accettabile a ottobre? Cosa ci sarebbe di così diverso a ottobre, da un punto di vista macroeconomico?

Inoltre, il costo di tale dilazione temporale è stato quantificato in circa un miliardo di euro di mancate entrate per lo Stato. E lo Stato, in ossequio all’assurdità del pareggio di bilancio, ha già pianificato di coprire questo mancato introito con altre tasse (accise su sigarette elettroniche, anticipi Irpef, ecc.). Come giustamente qualcuno ha commentato, sembra il gioco delle tre carte, cioè di truffatori di basso livello, truffatori da mercatino delle pulci. Una truffa che palesa tutta la sua inutilità nel fatto che comunque non serve a nulla sulla questione del debito: il debito continua a crescere, inesorabilmente, imperterrito, poiché è impossibile da pagare. Al di là dei giudizi economici, c’è l’inesorabilità dei numeri: siamo a 2041 miliardi di euro, e la crescita del debito continua inarrestabile, pareggio di bilancio o no.

La situazione è insostenibile, stiamo andando incontro al disastro (e già ci siamo con tutta evidenza, anche se il peggio deve venire) e non c’è nessuno, tra quelli al potere, che stia facendo qualcosa di utile in tal senso. Probabilmente perché non c’è nessuno che sappia cosa fare, che sappia cosa sia la moneta e che abbia idea di come affrontare la crisi, difendendo l’economia reale.

Il vangelo di domenica scorsa dice qualcosa di interessante: “Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio»”. Il governo Letta, dopo tanti proclami iniziali, è tornato al solito metodo, è tornato al metodo Monti, è tornato a spremere l’economia reale per preservare l’impossibile chimera, cioè il pareggio di bilancio.

Nello scorso articolo ho parlato del primato dell’esperienza come fattore di conoscenza. E tante altre volte ho già parlato della memoria come strumento fondamentale di comprensione di questa crisi. Questi due elementi, esperienza e memoria, sono strettamente legati, perché l’esperienza non è nient’altro che la memoria di situazioni già vissute, di dinamiche già viste. Questo governo, come altri in precedenza, è arrivato al potere con la sua bella idea per risolvere la crisi, ma si è posto di fronte al problema senza esperienza del passato e senza memoria: cioè di fatto disarmato e impotente. La classe politica italiana dimostra così ancora oggi tutta la sua inadeguatezza (prima di tutto culturale) nel momento in cui è chiamata a governare un frangente tanto complicato della vita del popolo italiano.

Ci vorrà un giorno in cui scenderemo tutti in piazza. Ci troveremo tutti in piazza, una riunione da dieci milioni di persone. Per dire al governo, qualunque sia, di cambiare completamente direzione. E iniziare a costruire un’Europa dei popoli, fatta dai popoli, per il bene dei popoli. E una moneta al servizio dell’economia reale. E la finanza, se serve, ai margini. Magari allora la politica tornerà a fare politica. Ma prima ci vuole il popolo.

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