Le bordate di Diego Della Valle contro John Elkann continuano: “Dopo aver speso 110 mila euro per comprare un po’ di diritti ha chiamato il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Non mi è sembrato giusto strumentalizzare una telefonata. Se proprio aveva mezz’ora di tempo che gli avanzava, poteva chiamare gli operai di Pomigliano”. È solo una parte della dichiarazione durissima di Della Valle contro il Presidente della Fiat (“il ragazzino che vuole fare lo stratega”) rilasciata in una conferenza stampa mentre annunciava il suo “sì” al piano di ricapitalizzazione di 400 milioni di Rcs-Mediagroup, cioè l’azienda che edita Il Corriere della Sera. Naturalmente Diego Della Valle ha posto due condizioni: lo scioglimento del patto di sindacato (quello che il finanziere franco-tunisino Tarak Ben Ammar ha sempre chiamato “un club di tennis o di golf”) e la revisione del piano industriale, su cui si è sentito di tutto e di più: dai cosiddetti esuberi fino alla vendita del Palazzo storico di via Solferino.



E nella conferenza stampa di giovedì, il cosiddetto “mister Tod’s”, che nella vecchia Mediobanca chiamavano con molto snobismo lo “scarparo”, ha sostenuto di aver avuto assicurazioni su questi punti, persino da Alberto Nagel, l’attuale amministratore delegato di Mediobanca. Spiegava Diego Della Valle: “Nagel, di recente, ha detto che l’epoca dei salotti è finita. Se darà seguito alle sue intenzioni, bisognerà dargliene merito”. È possibile che anche Giovanni “Nane” Bazoli, il Presidente di Intesa-San Paolo, abbia in qualche modo rassicurato Diego Della Valle. 



A questo punto Della Valle ha fatto l’annuncio. In soldoni: mette sul piatto 40 milioni di euro, che servono per restare alla quota dell’8,7% attuale, ma si dichiara pronto a rilevare l’inoptato che dovesse finire nel portafoglio delle banche del consorzio di garanzia (“che mi pare di aver capito che non sono interessate a mantenere questa partecipazione”) a patto che si trovi un nuovo piano industriale per rilanciare la Rcs Mediagroup.

Il futuro che “mister Tod’s” vede per Rcs è quello di un assetto tra 5 grandi soci, ciascuno con il 10%: “Auspico che al termine di questa operazione ci possano essere 5 soci che si mettono al 10% e, senza vincoli di sindacato, gestiscano l’azienda con un’azione comune”. Ora, può anche darsi che Della Valle raggiunga il suo scopo. Se si impegna a rilevare l’inoptato delle banche può raggiungere il 20% del capitale di Rcs e magari superarlo, non raggiungendo però mai la soglia del 30% su cui scatterebbe l’obbligo di un’Opa. Ma la partita non appare semplice, anzi al momento è molto fluida, bisognerebbe dire confusa, rispetto alle forze in campo.



La Fiat, che Della Valle attacca senza mezzi termini e neppure allusioni, ha tecnicamente il 20,135% del capitale di Rcs. Un ostacolo duro da superare. E Della Valle non ha consultato i vertici della casa automobilistica torinese sul futuro dell’azienda editoriale. Poi c’è Mediobanca, che, proprio giovedì, ha annunciato un investimento di 60 milioni di euro per avere una quota che ammonta al 15,64%. C’è anche Pirelli che mantiene un 5,3%. In caso di scontro aperto sul futuro assetto azionario e sul piano industriale, Della Valle è proprio sicuro dell’appoggio di Nagel anche contro la Fiat?

L’impressione è che, tanto per non cambiare mai, intorno alla questione de Il Corriere della Sera, si stia giocando una partita che riguarda il futuro dei rapporti di forza in quel che resta del capitalismo italiano, magari guardando anche ai “giochi” finanziari di questi giorni, dove il titolo Rcs ha fatto letteralmente il taboga con i brividi. Quest’ultimo fatto può magari apparire scontato per qualcuno, ma di certo non induce a riflessioni serene su questo scontro che si protrae da tempo, anche su altre questioni.

Il tutto avviene in una ridda di voci incontrollabili, che vengono lanciate e poi smentite, tanto per fare da “motore” al taboga borsistico. Ne citiamo solamente un paio: da quella di Rupert Murdoch, che sarebbe il “fantasma” dietro a tutta questa vicenda per un interessamento fino alla prospettata fusione tra La Stampa torinese e Il Corriere della Sera.

Poi ci sono alcuni “scantonamenti”, per così dire, de Il Corriere della Sera, rispetto al governo di Enrico Letta, magari in chiave “montiana” oppure in versione “renziana”. Anche questo fa gioco. Il tutto dovrebbe far parte di uno scontro tra “vecchio capitalismo assistito” e “nuovo capitalismo”, quello “non assistito”, come dice Della Valle. Magari in tutto questo c’è anche qualcosa di vero, anche se Della Valle nel “salotto buono” ci sta da circa una ventina di anni.

In tutti i casi perché, prima di pensare al controllo di Rcs e ai giochi finanziari in corso, non ci si confronta apertamente e direttamente sul piano industriale di Rcs e soprattutto de Il Corriere della Sera? Quello che ci si domanda, visto l’andazzo di questi giorni, è se esista un interesse reale al rilancio del giornale di via Solferino, anche nel mutamento epocale della comunicazione che stiamo vivendo, oppure ci si limiti, tanto per non cambiare mai, al controllo puro e semplice di un “gioiello” prestigioso che rischia però di essere continuamente deprezzato.

La sensazione è che il cosiddetto “salotto buono” italiano ripeta, con figli e nipoti, uno schema antico. È dai tempi dell’uscita da via Solferino negli anni Settanta della famiglia Crespi (quelli che avevano rilevato da Luigi Albertini su “suggerimento” del ras fascista Roberto Farinacci negli anni Venti il giornale) che non si vede più la parvenza di un editore “puro”. La parentesi dei Rizzoli è finita tra scandali, galera, P2, “affare Calvi” e via cantando. Poi è continuata la sequenza delle “congregazioni finanziarie e imprenditoriali” riunite in patto di sindacato, cioè il controllo di una parte determinante dei cosiddetti “poteri forti” sul giornale.

Il punto centrale, anche in questo “terzo millennio”, dopo la fine della prima repubblica e forse anche della seconda, è se anche il più influente e autorevole giornale italiano meriti un editore, cioè un imprenditore che fa di mestiere solo l’editore, così come avviene in quasi tutti i paesi di consolidata democrazia. Al momento l’impressione è desolante, perché ci si trova di fronte ai soliti protagonisti che fanno altri mestieri e si scontrano per il controllo di un grande giornale, così come è sempre avvenuto per decenni alla faccia del rinnovamento e del cambiamento della classe dirigente italiana.