L’idea del Pdl è ambiziosa e, se tradotta in realtà, risolverebbe buona parte dei nostri problemi. Il piano assume che si possano tagliare 400 miliardi di debito in 5 anni, vendendo 100 miliardi di beni pubblici (15-20 l’anno), 40-50 di concessioni demaniali e tassando per 25-35 miliardi le attività finanziarie detenute in Svizzera (5-7 miliardi l’anno); poi, ci sarebbe la cosiddetta operazione choc, del valore di 215-235 miliardi che si otterrebbero costituendo una società partecipata da banche, fondazioni bancarie e assicurazioni incaricata di emettere obbligazioni garantite da beni patrimoniali e diritti dello Stato precedentemente acquistiti, e che non siano indisponibili o strategici: non sarà venduta, per intenderci, la Torre di Pisa e neppure l’Eni. Tale società, essendo di diritto privato, non aumenterebbe, nell’emettere titoli, il debito pubblico, mentre i suoi ricavati, venendo direttamente girati allo Stato, sarebbero usati per ridurlo. Contestualmente, nel governo continua a infuriare lo scontro sull’Imu: il Pdl vuole la sua totale abolizione, il Pd l’esenzione solamente per la classe medio-bassa. Nel dibattito, si sta affacciando l’idea di accorpare l’Imu alla Tares, magari facendo pagare l’imposta sulle abitazioni non più al proprietario, ma all’inquilino, come in Inghilterra. Abbiamo parlato di tutto ciò con Ugo Arrigo, professo di Finanza Pubblica all’Università Bicocca di Milano.



Cosa ne pensa, anzitutto, dell’accorpamento di Tares e Imu?

La Tares, più che una tassa, dovrebbe essere considerata una tariffa. Riguarda un servizio misurabile e quantificabile, e si applica a chi vive nell’abitazione. Cosa ben diversa, invece, è l’Imu, che riguarda dei servizi indivisibili, a domanda collettiva. Che, casomai, andrebbe quindi rivista, ma non accorpata.



In che termini?

Personalmente, ritengo che l’esenzione dovrebbe essere personale e commisurata all’entità familiare. Dovrebbe essere legata, quindi, al numero dei componenti della famiglia, e non avere nulla a che fare con il valore dell’immobile. Per intenderci, se assumiamo che ciascun cittadino abbia diritto a un esenzione pari a due vani, e se abita in una casa di 12 stanze, pagherà l’Imu su 10.

Rispetto al piano di dismissione del patrimonio pubblico, il Tesoro ha manifestato alcune perplessità circa l’entità e la fattibilità dell’operazione. Lei cosa ne pensa?

Che il patrimonio sia potenzialmente vendibile, non significa che lo possa essere effettivamente, né che lo sia nell’arco di pochi anni. Ma, del resto, non  si ravvisa l’esigenza di vendere tutto in tempi rapidi. Solo se fossimo in una situazione come quella greca bisognerebbe vendere tutto nel minor tempo possibile per far cassa. 



Nelle nostre condizioni, invece, come si dovrebbe procedere?

Ciò che conta è iniziare. Anzitutto, per renderci conto di come la situazione, in pratica, potrebbe evolvere e per assumere di conseguenza gli opportuni accorgimenti volti ad assestare, in corso d’opera, la direzione. D’altro canto, il semplice fatto di iniziare a privatizzare produrrebbe ottimi risultati in termini di credibilità; essa, ancora più che dalla vendita di immobili, sarebbe prodotta dalla vendita delle partecipazioni nelle imprese.

 

In questo caso, la credibilità che effetti economici sortirebbe?

Lo Stato, ritirando la sua presenza dal tessuto produttivo, darebbe un importante segnale agli investitori privati nazionali e internazionali: sarebbe come se si impegnasse a fare esclusivamente l’arbitro e a non giocare più direttamente la partita, alterando le regole per favorire se stesso. Gli imprenditori inizierebbero, così, a convincersi che lo Stato è disposto a creare le condizioni migliori per loro. Da questo punto di vista, il maggior effetto si determinerebbe privatizzando l’azienda in assoluto di maggior interesse per i politici: la Rai. Magari, vendendola provocatoriamente a solo un euro. Rispetto a queste operazioni, infine, non bisogna considerare solamente gli introiti diretti, ma anche i risparmi di spesa, che sono di due ordini: lo Stato, da un lato, non deve più sovvenzionare le imprese che ha privatizzato, dall’altro, lo spread si riduce in maniera proporzionale al recupero di credibilità.

 

A parte la Rai, come evitare che le privatizzazioni non siano svendite, come in passato?

Creando un comitato di garanti, costituito da personalità di spicco e indipendenti. Potrebbero presiedere la società incaricata di emettere obbligazioni garantite dagli assets produttivi che dovrebbe assumere, al contempo, le funzioni di authority. L’operazione dovrebbe avere una clausola fondamentale: non si può fare marcia indietro. Qualcosa del genere è stato fatto in Germania dopo la riunificazione. Una società veicolo ha emesso titoli garantiti dalle imprese pubbliche della Germania dell’Est che, nell’arco di 4-5 anni, sono state interamente vendute. Non dimentichiamo che, in Italia, a essere ottimisti ci vorranno 20 anni per privatizzare tutto il privatizzabile. Il comitato dei garanti avrebbe dunque un mandato specifico non modificabile che sopravviverebbe al governo.  

 

Come impedire, invece, che le privatizzazioni facciano solamente gli interessi degli stranieri?

Concentrandosi sulla vendita delle utilities e su quella delle reti fisiche che, invece, lo Stato ha deciso paradossalmente di tenersi. Per intenderci, non c’è modo che un acquedotto, un’azienda che produce energia, un’azienda del trasporto pubblico locale, le poste o le ferrovie vengano delocalizzate.

 

(Paolo Nessi)

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