Federico Ghizzoni, amministratore delegato di Unicredit, la prima banca italiana, sostiene che si sta ricominciando a far credito. Non sappiamo se sia una notizia, una previsione o un desiderio, ma in ogni caso le sue parole aggiungono speranza alle prime indicazioni che anche l’industria ha ripreso a muoversi. Anche la borsa, che aveva picchiato duro, ha ripreso a comperare titoli bancari. Eppure, la situazione è tutt’altro che tranquilla. Minimizzare non solo non serve, è pericoloso. L’Abi ha bussato alla porta del governo chiedendo sconti fiscali. In realtà, i banchieri, a cominciare dai più grandi, dovrebbero dare segno di maggior coraggio.



I loro problemi sono due: troppi crediti a rischio e poco capitale. E si intrecciano in modo preoccupante. Nuovi capitali non ci sono e mancano anche i capitalisti. Le fondazioni non hanno più sangue da donare e in ogni caso farebbero bene a ridurre la loro sovraesposizione bancaria (Mps docet). Le banche italiane hanno preso dalla Bce 255 miliardi e a fine giugno ne avevano ancora 247. Li hanno usati in parte per sostenere i titoli di stato e ridurre lo spread, in parte per bilanciare le perdite. Nell’un caso e nell’altro la conseguenza è stata la riduzione dei presiti, il credit crunch.



La Banca d’Italia ha analizzato con grande attenzione i bilanci delle 20 principali banche del Paese e presto questo esame potrebbe essere esteso agli altri istituti di credito più piccoli. Il Wall Street Journal ha rivelato che questa iniziativa è stata il seguito di una precedente ispezione dello scorso autunno, che aveva portato le banche a recuperare 3,4 miliardi di euro per proteggersi dai prestiti inesigibili.Il numero dei cosiddetti crediti deteriorati è cresciuto consecutivamente da 27 mesi. A marzo essi valevano 249 miliardi di euro, ovvero il 14,2% di tutti i crediti del sistema bancario italiano. A fine del 2010 il loro valore era collocato a 157 miliardi, pari all’8,9%. Gli organismi di vigilanza e gli stessi banchieri, secondo il quotidiano americano, si aspettano che la situazione peggiori fino al 2014, anche se l’economia del nostro Paese si dovrebbe stabilizzare verso la fine del 2013, dopo due anni di recessione consecutiva. Di qui il timore che l’attuale capitalizzazione sia insufficiente per fronteggiare una nuova ondata di crediti deteriorati, con conseguenti rischi per la sostenibilità dei loro bilanci.



Cadono così le illusioni create attorno alla stabilità del sistema. La mancanza di una bolla immobiliare e le minori sperimentazioni con i derivati sui mercati esteri avevano parzialmente protetto le banche italiane dal crollo conosciuto dagli altri istituti europei, evitando al governo sanguinosi salvataggi come quelli che hanno fatto esplodere i deficit di Irlanda o Spagna. Si era detto che le banche locali sarebbero rimaste indenni perché gestite in modo più conservatore, quindi più sano. Al contrario, come dimostra la Banca delle Marche, ormai è tutto un rincorrersi di sofferenze e di crisi. Occorre cambiare la governance delle panche popolari e cooperative. Soprattutto, bisogna fare un vero e proprio balzo produttivo.

Particolarmente preoccupante è stato l’esame su 8 delle 20 grandi banche, che ha portato in alcuni casi alla verifica sull’intera attività degli istituti, non solo dei crediti deteriorati. Da Banca d’Italia sono partite proposte, come la riduzione dei costi operativi, incluse le retribuzioni dei manager. Anche la vendita di asset non strategici è stata inserita come possibile misura. Tutte raccomandazioni ripetute da Ignazio Visco nelle sue considerazioni finali all’assemblea della Banca d’Italia il 31 maggio.

Nuove ispezioni sono state lanciate e a settembre si conoscerà l’esito di queste ulteriori verifiche. Ma è chiaro che deve partire un’ampia e coraggiosa ristrutturazione dell’industria bancaria italiana. Le aziende di credito hanno una bassa produttività, non hanno compiuto il salto tecnologico delle maggiori concorrenti europee, internet resta uno strumento accessorio invece di far parte integrante ormai del modello di business. Secondo stime dei maggiori centri di consulenza, il miglioramento potrebbe essere considerevole, aumentando così i margini che oggi vengono alimentati principalmente dalla differenza tra tassi attivi e passivi, e dai costi dei servizi, quindi caricati sulla clientela. Certo, una vera ristrutturazione ha costi sociali, ma questo non può diventare un alibi per non far nulla o richiedere benefici pubblici e sovvenzioni fiscali.

La prima strada da imboccare, dunque, è la via maestra: accrescere l’efficienza. Naturalmente ci vorrà tempo per vedere gli effetti positivi, forse troppo tempo. Dunque, la crisi richiede misure immediate e di natura straordinaria. Alcune banche stanno cercando di trovare una propria soluzione trattando con gli hedge fund per vendere i crediti deteriorati a prezzi molto scontati. Mediobanca ha lanciato l’idea di mettere assieme questi prestiti non esigibili in un fondo straordinario che li rivenderebbe a investitori ad alto rischio. È successo già con il fallimento del Banco di Napoli. C’è voluto tempo, ma alla fine l’operazione s’è chiusa con profitto.

Certo, adesso la situazione è diversa e si tratta di un intervento sistemico, su grande scala. Tuttavia, proprio il miglioramento della congiuntura e una relativa tranquillità sui mercati potrebbe favorire l’operazione. Bisogna far presto e soprattutto occorre dire la verità. Lanciare messaggi rassicuranti senza fondamento non serve a rassicurare, ma ad allarmare sempre di più risparmiatori e investitori. Basta con la cantilena sulle banche italiane che stanno meglio delle altre. I loro problemi sono diversi, ma altrettanto complessi e acuti. vanno affrontati con coraggio e con innovazione.

I banchieri che si chiudono a difesa di trincee indifendibili sono destinati a essere sconfitti. Non c’è nulla da conservare, è arrivato il momento di innovare.