Cosa sa il mondo che l’America non sa o finge di non sapere? Ma soprattutto, sicuri che il diluvio di liquidità giapponese continuerà a sorreggere il nostro spread? Mentre infatti a Wall Street si è continuato a festeggiare nuovi record per tutto il mese di giugno, stando ai dati della TIC resi noti pochi giorni fa, gli investitori stranieri, sia privati che istituzionali, hanno svenduto a ritmi spaventosi qualsiasi asset class statunitense in loro possesso. Non era mai successa una sell off simile, mai nella storia: titoli corporate liquidati per un controvalore di 26,8 miliardi di dollari, obbligazioni corporate per 5 miliardi di dollari, agencies per 5,2 miliardi di dollari e soprattutto Treasuries per una somma quasi epica, 40,8 miliardi di dollari. Prendendo in esame tutte le asset class, le vendite consolidate di investitori stranieri nel giugno di quest’anno sono state maggiori che nel crollo Lehman Brothers e nel mese successivo ad esso. Insomma, il ping pong sul cosiddetto “taper” della Fed, la fine o il rallentamento del programma di stimolo, ha spaventato gli investitori stranieri più della più grossa bancarotta finanziaria della storia.
Da un certo punto di vista verrebbe quasi da dire che la Fed ha ottenuto ciò che voleva, ovvero far prezzare in anticipo il “taper” dagli investitori stranieri per evitare l’esplosione della bolla tutta d’un colpo, il problema è però un altro: e se invece questa svendita fosse solo e soltanto la reazione alle speculazioni riguardo un possibile “taper”, cosa potrà succedere quando la speculazione diventerà realtà? Oltretutto, leggendo con attenzione i dati della TIC, si scopre che i venditori più massicci sono stati i più grandi creditori degli Stati Uniti, ovvero Cina e Giappone. Nel mese di giugno, il combinato di vendita di equities Usa di questi due paesi ha toccato quota 42 miliardi di dollari, più o meno divisi equamente: si tratta del valore più alto da anni. Andando poi a vedere nel dettaglio la composizione della vendita, si scopre che il grosso era composto da debito a breve termine, i Bills. Questa concentrazione sulle brevi scadenze spiegherebbe quindi la continua e ossessiva distinzione che Bernanke fa tra “tapering” e “tighting”, ovvero la contrazione: senza questa sottolineatura, probabilmente, la pressione sulle scadenze 3-6 mesi sarebbe stata tale da non permettere alla Fed di poter intervenire per scongiurare un aumento dei tassi a breve termine, ipotesi che farebbe grippare del tutto la presunta ripresa Usa, stante l’economia ancora molto debole e la disconnessione tra inflazione futura reale e tassi di crescita impliciti pianificati dalla Federal Reserve.
Insomma, i creditori di Zio Sam pare che gli stiano dicendo addio, almeno guardando al dato delle detenzioni esteri totali di Treasuries, scese a 5,6 triliardi dollari, giù di 57 miliardi in un solo mese e al livello più basso da inizio anno. E il dato appare decisamente inquietante anche per un altro motivo. La settimana conclusasi venerdì 9 agosto ha visto gli acquisti di bond stranieri da parte di investitori giapponesi ai massimi da tre anni, frutto dai tassi interni bassissimi e dello yen svalutato che spinge verso la ricerca di profitti maggiori all’estero. Soggetti come banche, assicurazioni e fondi pensione hanno comprato debito straniero per un controvalore di 16,45 miliardi di dollari, più del doppio di quanto acquistato la settimana precedente, rimanendo compratori netti per la sesta settimana di fila. La Bank of Japan, ovviamente, fa di tutto per incoraggiare gli acquisti esteri, visto che questo è uno dei fattori chiave per svalutare ulteriormente lo yen, valuta che dal novembre dello scorso anno (quando il premier Shinzo Abe annunciò l’avvio della politica di stimolo) si è deprezzato del 22,4% sul dollaro. Alcuni operatori del mercato ritengono che il grosso degli acquisti si siano concentrati su Treasuries statunitensi, bond governativi australiani con rating AAA e obbligazioni sovrane dei paesi periferici europei, vero driver degli spread in discesa di Italia e Spagna.
Oggi il decennale giapponese paga un rendimento dello 0,74%, contro il 2,873% del Treasury Usa – record nel pre-market di ieri – e il 3,9% del decennale australiano. E qui casca l’asino, ovvero giunge la riprova del fatto che gli acquisti nipponici sui Treasuries Usa sono stati molto limitati e che invece quelli su Italia e Spagna decisamente alti, tanto da garantire al nostro spread di scendere sotto quota 240 punti base nonostante le fibrillazioni politiche e i non brillantissimi indicatori macro della nostra economia. A metà della scorsa settimana il decennale statunitense ha appunto sfondato quota 2,82%, un livello mai visto da due anni a questa parte e con un tasso di crescita molto veloce, tanto da ricordare la dinamica vissuta nel periodo tra l’ottobre 2010 e il febbraio 2011: ieri, prima che la campanella di Wall Street suonasse, è arrivato a 2,873%. Parliamo di qualcosa come oltre 130 punti base in soli tre mesi per una delle categorie obbligazionarie ritenute più sicure al mondo, un benchmark globale e una certezza nei portafogli di investimento in bond per tutti i principali gestori.
I numeri parlano chiaro. I flussi di capitale in uscita dai mutual funds obbligazionari Usa e dagli Etf in agosto hanno subito una netta accelerazione, stando a un report reso noto ieri da TrimTabs, chiaro segnale dei timori per un aumento dei rendimenti che vada a colpire l’ancora fragile economia statunitense. TrimTabs è chiaro: «Siamo preoccupati del fatto che la Fed stia cominciando a perdere il controllo del mercato obbligazionario, un fatto tutt’altro che positivo per la Borsa e per un’economia altamente esposta alla leva come quella americana». Soltanto nel mese in corso, l’outflow è stato di 19,7 miliardi di dollari, dopo i 14,8 miliardi di luglio, il quarto peggior risultato di sempre. Per quanto riguarda i fondi obbligazionari, da giugno la fuga di capitali ha toccato quota 103,5 miliardi o il 2,7% degli assets totali. Il problema è: se la Fed smette di comprare bond e lo stesso fanno gli investitori, chi comprerà tutto il debito che il governo americano e le aziende devono vendere a tassi bassi?
Attenzione, poi, perché la gran parte degli analisti tecnici e degli investitori – interpellati da Bank of America-Merrill Lynch – ritiene che quota 3,5% di rendimento per il Treasury a 10 anni sia la soglia alla quale si potrebbe innescare una rotazione disordinata dei flussi di allocazione di capitale tra le varie asset class. La questione che si pone, infatti, con i tassi che cominciano a salire, è quanto tempo ci vorrà prima che cominci un flusso in uscita dai fondi obbligazionari tale da portare a un significativo ampliamento degli spread di credito per le aziende. Come già detto, il consensus è per quota 3,5% dal circa 2,9% attuale e la preoccupazione comincia a essere parecchia, perché se il mercato del credito va in sell-off, le aziende non saranno in grado di finanziare le aspettative che il mercato equity già sta prezzando nel valore dei titoli al netto dei massimi delle Borse. In parole povere, se le corporation Usa non saranno in grado di prendere a prestito denaro a basso costo per finanziare i buyback e i dividendi per gli investitori, questi ultimi potrebbero disinnamorarsi rapidamente di Wall Street, con conseguenze difficilmente calcolabili a livello empirico.
Appare chiaro, quindi, che la Fed farà di tutto per evitare questa ipotesi, cercando di calmierare i rendimenti dei decennali, anche con acquisti diciamo istituzionali. Ma attenzione, nonostante la fuga di massa dalle equities statunitensi, di fatto già oggi il Treasury a 10 anni rappresenta un potenziale bersaglio per i cercatori di rendimento, visto che prezza un premio di oltre 70 punti base sullo Standard&Poor’s 500, oggi ai massimi da due anni. Insomma, il decennale Usa tanto scaricato, paga uno 32% in più di yield rispetto a quello che, di fatto, è il mercato equity più esposto alla leva di sempre. Quindi, come sono arrivati, i soldi nipponici per comprare il nostro debito e quello spagnolo possono anche sparire, come hanno fatto in giugno nei confronti delle equities Usa. Basta poco. Uno scossone in Grecia, una crisi di governo in Italia o in Spagna o ancora in Portogallo, rinnovati timori per Cipro. Oppure un governo stabile che esca dalle urne tedesche il 22 settembre.
A quel punto i timori che hanno spinto in questi giorni i rendimenti del Bund a 10 anni all’1,89%, il massimo da diciassette mesi, spariranno, lo spread tedesco scenderà e i cosiddetti periferici torneranno potenzialmente nel mirino. E senza gli yen a pioggia di questo periodo e con gli Usa in trincea per salvarsi la ghirba, sarà davvero ma davvero dura. Domani verranno rese note le minute del meeting del Comitato monetario della Fed degli scorsi 30 e 31 luglio, mentre giovedì inizia la conferenza della Fed di Jackson Hole, dalla quale dovrebbe uscire la verità sul “taper”. Il tempo della tregua e dell’incertezza sta per finire.