Lo scorso giugno abbiamo sfiorato il disastro, non lo dico io ma il grafico che vedete a fondo pagina. Martedì vi ho parlato di come due mesi fa gli investitori internazionali abbiano scaricato qualsiasi tipo di asset class statunitense, in particolar modo i Treasuries, liquidati per un controvalore di oltre 40 miliardi di dollari dai principali creditori degli Usa, Cina e Giappone, più altri paesi che hanno portato il totale della sell-off a 57 miliardi. Questa mossa ha portato a un aumento del rendimento dei titoli di Stato Usa, uno shock subito riverberatosi sui mercati, già nervosi in attesa delle minute della Fed sul cosiddetto “taper” del programma di stimolo. Bene, sempre nel mese di giugno, stando ai dati della TIC, un misterioso compratore ha acquistato tutto ciò che il mercato ha scaricato, anzi di più. La candela verde del grafico lo dice chiaramente: 59,1 miliardi di Treasuries acquistati.



Chi sia il “mystery buyer” non è difficile da immaginare, la Fed o le istituzioni finanziarie Usa cui la banca centrale sta garantendo 85 miliardi di dollari di liquidità al mese attraverso il programma di acquisto titoli. Le conseguenze di un eventuale non acquisto di quel livello, lo sono un po’ di più: a occhio, il rendimento del decennale Usa sarebbe già oltre quota 3,5%, mirando area 4%, ovvero oltre il livello di rotazione disordinata dell’allocazione di capitale, altro fatto di cui abbiamo parlato martedì. In sintesi, la catastrofe. Ora, in attesa di sapere se la Fed continuerà o meno a comprare titoli, assistiamo all’apertura in grande stile di un altro fronte di crisi.



Dopo la fuga dagli Usa, infatti, i capitali stanno scappando a gambe levate dai mercati emergenti. Gli analisti già hanno definito il fenomeno “big flight” e le nazioni che stanno patendo il trattamento peggiore da parte degli investitori sono Indonesia e India, con la Borsa di Giakarta che ha perso il 13% in tre sedute ed è entrata ufficialmente in territorio ribassista e la rupia indiana scesa ai minimi record contro il dollaro. Ancora una volta, a spaventare è l’incertezza sul “taper” della Fed e il rialzo dei tassi negli Usa, un qualcosa di tremendamente negativo in un mondo che vive a debito e ha necessità di prendere a prestito denaro a tassi bassi. Per Chris Weston, capo analista di IG, «semplicemente ci troviamo in un mercato che non vedrà rendimenti bassi a breve, a meno di qualche serio intervento verbale della Fed». Anche perché i mercati emergenti, proprio grazie ai vari round di stimolo della Banca centrale Usa, hanno conosciuto un flusso di capitali nelle loro economie pari a 4 triliardi di dollari, ma ora quel denaro sta riprendendo la strada di casa, allocandosi altrove e spedendo la rupia indiana a perdere il 15% da inizio anno contro il dollaro e il real brasiliano il 18%.



Per Weston le prospettive sono cupe: «Nazioni con livelli di inflazione alti, grossi deficit di conto corrente e continue fughe di capitali verranno distrutte e resteranno poi vulnerabili a lungo». Sono infatti cinque i fattori che hanno reso possibile questa situazione, al netto del detonatore statunitense. Primo, i fondamentali dei mercati emergenti sono deteriorati negli ultimi anni, ma il continuo afflusso di capitali dall’estero ha supportato le economie. Secondo, dal 2009 in poi la crescita record di quei Paesi è stata garantita per larga parte proprio dagli inflows di capitali, spinti dagli investimenti cinesi e dai programmi di stimolo Usa, oltre che dalla grandeur fuori luogo proprio di qualche Brics. Terzo, quando il denaro a pioggia ha cominciato a diminuire, molti investimenti esteri si sono ritirati dai paesi emergenti, non più così competitivi e convenienti. Quarto, le economie emergenti si trovano ora a dover affrontare parecchi problemi: lo stimolo – sia interno che esterno – sta esaurendosi, il prezzo delle commodity è destinato a restare basso, a meno che la Cina non ritrovi la spinta alla crescita-turbo e, infine, l’aumento dei rendimenti dei bond rende più difficile finanziarsi a basso costo. Quinto, ora che l’euforia sta finendo, il focus dei mercati potrebbe concentrarsi sulle debolezze dei quei paesi, ovvero le infrastrutture (fatta eccezione per la Cina) e la necessità di ristrutturare il debito.

Insomma, gli investitori non vogliono farsi trovare sul lato sbagliato del mercato se il “taper” della Fed dovesse davvero partire in settembre, quindi si muovono in anticipo, generando però scossoni spaventosi. E se questa fuga di capitali dovesse accelerare, alla fine gli investitori riallocheranno i loro investimenti dove si trovano assets legati alla crescita: quindi negli Usa o nei mercati di frontiera, con il rischio che anche l’inflow piovuto sull’obbligazionario sovrano dei paesi periferici dell’Ue svanisca innescando un effetto asiatico anche nel Vecchio Continente. E anche i bond dei paesi emergenti cominciano a tremare, con il decennale indiano su di 23 punti base in un giorno al record di rendimento da dodici anni a questa parte, 9,47% e quello indonesiano a sette anni che prezza uno yield dell’8,33%. Insomma, un mezzo massacro.

Il governo di Nuova Delhi è corso ai ripari già la scorsa settimana, sfornando una serie di misure per fermare il declino della moneta che contemplano l’aumento dei dazi sull’oro importato dall’8% al 10% e, per un importo analogo, ha rialzato i dazi sull’import di platino, mentre quelli sulle importazioni di argento sono stati aumentati dal 6% al 10%. Il tutto per contenere il deficit della bilancia dei pagamenti che sta indebolendo pericolosamente la rupia, dato che le importazioni di oro sono quelle che, dopo il petrolio, contribuiscono maggiormente al deficit corrente. Una manovra già effettuata l’anno scorso senza però ottenere gli effetti desiderati: le importazioni di oro a luglio sono salite ugualmente a 2,9 miliardi di dollari dai 2,45 di giugno.

E a confermare che il trend è tutt’altro che invertito, quindi con forti rischi di sbilanciamento del deficit, ci ha pensato la banca australiana Macquarie Bank, la quale ha informato che soltanto nel mese di maggio hanno lasciato Londra in direzione Svizzera 240 tonnellate d’oro, portando il totale del primo semestre di quest’anno a 797 tonnellate: 17 volte quanto trasferito nel 2012, fermatosi a quota 92 tonnellate. Il perché è presto detto: in Svizzera sono presenti aziende in grado di fondere le barre e tramutarle in monete e altri oggetti appetibili per il mercato asiatico, soprattutto Cina e India. Sempre il 12 agosto, poi, il ministro delle Finanze indiano, Palaniappan Chidambaram, aveva tentato di tranquillizzare gli investitori, assicurando che «la gente comincerà a capire che gli indicatori del mercato indiano devono riflettere le reali condizioni e non dipendere da quello che succede negli Usa».

Per Richard Yetsenga, capo analista della banca australiana ANZ, «i problemi dell’India rappresentano un grande microcosmo per quanto sta accadendo sui mercati emergenti. Un microcosmo nel senso che non è successo nulla a livello interno che potesse scatenare le ultime mosse, il deficit di conto corrente del Paese è stato molto ampio per gli ultimi due anni. Soltanto l’aumento dei rendimenti dei bond statunitensi può spiegare ciò che si sta manifestando nella valuta indiana. Il costo del capitale sta salendo e questo è un problema ovunque, ma l’Asia è sicuramente più a rischio e più esposta a questa situazione». Tuttavia, gli investitori indiani restano scettici sulle condizioni della rupia e del deficit corrente e lunedì anche la Banca mondiale ha cercato di rassicurare i mercati sulla crisi del Paese asiatico: «Non è così brutta come sembra», ha fatto sapere il capo economista dell’istituto, Kaushik Basu, che è stato il principale consigliere del ministro delle Finanze indiano fino allo scorso settembre. Insomma, non siamo a un deja vu del 1991, quando l’India, avendo riserve per soli 13 giorni per coprire le importazioni, fu costretta a impegnare il suo oro per pagare i conti con l’estero e dovette ricorrere ai prestiti del Fmi e avviare drastiche riforme per liberalizzare la sua economia. Sarà, ma il fatto che martedì la Banca centrale indiana sia dovuta intervenire vendendo dollari per riequilibrare la situazione, non depone a favore di una situazione rosea.

E sempre martedì, anche la Banca centrale del Brasile si è vista costretta a introdurre nuove misure per contrastare l’indebolimento del real. Ma se la situazione indiana fa paura, il Paese che pare maggiormente esposto ai marosi di questa fuga dei capitali è l’Indonesia, dove ai timori per il “taper” della Fed che sta condizionando tutti i mercati emergenti si è unita la decisione della Banca centrale di alzare i requisiti di riserve per le banche del Paese, proprio in risposta ai violenti outflows. Una decisione che di fatto, drenerà dal mercato 5 miliardi di dollari, stando a calcoli effettuati da Herdal Van der Linde, analista per Asia e Pacifico di HSBC: «L’inflazione è una questione molto seria per l’Indonesia, poiché Giakarta ha permesso che i prezzi del carburante salissero. E ora devono provare a controllare la liquidità per evitare che il tasso inflattivo salga ancora più in alto». Stando a dati forniti venerdì scorso dalla Banca centrale, il deficit di conto corrente è cresciuto e nel secondo trimestre di quest’anno si è attestato al 4,4% del Pil dal 2,4% del primo. «Quando altrove piove, qui diluvia», ha decretato Song Seng Wun, capo dei ricercatori di CIMB: «Non c’è molto che gli indonesiani possano fare, la lezione che abbiamo imparato dalla crisi finanziaria è che non puoi combattere il mercato».

Per Sanjay Mathur, «se non ci sarà una risposta politica, il mercato indonesiano continuerà a cadere. Non ritengo folle pensare a una rupia che tratti attorno a 11 contro il dollaro entro la fine di settembre. Dovrebbero immediatamente alzare i tassi, è l’unico modo per cercare di stabilizzare la moneta». E ora i timori sono per un effetto domino che vada a colpire tutto il continente asiatico e l’area del Pacifico. Per Mikio Kumada, direttore esecutivo della LGT Capital Partners, tuttavia «la reazione dei Paesi emergenti ai timori del “taper” è esagerata. Penso che questo rallentamento sarà bilanciato dal ritorno alla crescita dei Paesi del G7». Ma giova ricordare che paesi come la Thailandia o la Malesia, ad esempio, hanno sì conosciuto una crescita del credito molto forte negli ultimi due anni, quindi possono apparire a posto da una visione esterna, ma hanno un altissimo livello di leva interna. Non a caso, martedì Credit Suisse poneva proprio questi due paesi in cima alla classifica della prossima pedina del domino a cadere dopo l’Indonesia.

Il direttore delle ricerche per l’Asia dell’istituto, Robert Prior-Wandesforde, ritiene che le valute di entrambe le nazioni conosceranno presto forti pressioni e ritiene che sia la Malesia a destare maggiore preoccupazione: «Nel Paese, infatti, si è registrato un significativo deterioramento della posizione di surplus di conto corrente e, inoltre, moltissimo del suo debito è detenuto all’estero in bond e bills». A incorniciare con una frase la situazione che si sta delineando è Shane Oliver, capo degli investimenti all’australiana AMP Capital Investors: «Il pendolo sta oscillando e tornando a favore delle economie avanzate. Siamo entrati in un periodo molto duro e difficile per l’Asia, dopo una decade di performance ora è arrivato il cambio di marcia». I numeri parlano chiaro: al 22 maggio scorso, dato EPFR, gli outflows dai fondi obbligazionari dei cosiddetti Brics sono stati pari a un terzo di tutti gli asset in gestione, contro il 4% da inizio anno a quando Bernanke ha cominciato a parlare di “taper”.

Ma se qualcuno piange, qualcun’altro gode. Stando a dati di Bank of America-Merrill Lynch, da gennaio a metà agosto i mercati emergenti hanno conosciuto un outflows di circa 2,1 miliardi di dollari, 1,5 dei quali sono però finiti investiti nei cosiddetti “mercati di frontiera”, ovvero 30 paesi sottosviluppati ma con potenzialità di rapida crescita come Iraq, Bangladesh e Mozambico. Non a caso, da quando si parla di “taper” l’indice MSCI Emerging Markets ha perso il 3,6%, mentre l’MSCI Frontier Markets ha guadagnato lo 0,25%. Oltre a crescere a ritmi spesso tremendi, soprattutto in Africa, questi paesi sono poco correlati con il resto del mondo, non sono dominati e totalmente dipendenti dal capitale estero e garantiscono una riduzione del rischio generale sul portafoglio di investimenti.

Certo, i mercati emergenti pesano per circa il 51% del Pil mondiale, ma hanno un capitalizzazione di mercato inferiore al 10%, quindi le ricadute di una loro crisi potrebbero avere effetti limitati sul mercato. Il problema resta il livello di leva cui è esposto quest’ultimo a livello globale. Se la Fed sbaglia una mossa, siamo davvero nei guai. Tutti.