Preparatevi a un rientro insidioso, ammonisce Mohamed El-Erian, l’amministratore delegato di Pimco, il più importante investitore al mondo nei titoli obbligazionari (più di 250 miliardi dollari). Siamo entrati nella classica fase di turbolenza autunnale, “positiva solo per i trader bravi e nevrotizzante per tutti gli altri”, ammonisce Alessandro Fugnoli di Kairos, uno dei più ascoltati strategist italiani. Fa sensazione tanta prudenza quando nei cieli della finanza tutto sembra volgere al meglio: cala lo spread, le Borse della “periferia” d’Europa (etichetta offensiva affibbiata a Italia e Spagna) recuperano parte del distacco dai cugini del Nord Europa; i mercati, ancora una volta, hanno anticipato la ripresa economica che si profila per l’ultima parte del 2013. L’aria di ripresa è così frizzante che nemmeno le nuvole in arrivo dalla politica italiana non turbano la festa: gli analisti continuano a premiare Mediaset, scommettendo sulla ripresa della raccolta pubblicitaria, senza badare alle ambasce di Silvio Berlusconi.



Eppure non mancano buoni motivi per giustificare la prudenza. Uno su tutti: la politica monetaria della Fed, dopo tre anni e mezzo all’insegna dell’espansione, sta per virare verso condizioni più “normali”. L’operazione, che entrerà nel vivo tra settembre e dicembre, sta già provocando movimenti di portata storica nei mercati finanziari. Ma anche nell’economia e nella politica internazionale. Proviamo a capire perché attraverso un piccolo riepilogo della storia degli ultimi anni.



1 – Dopo la crisi asiatica del 1997/98, i paesi asiatici hanno avviato una durissima ristrutturazione a suon di austerità interna e riequilibrio della bilancia dei pagamenti (la medicina imposta in questi anni all’Europa del Mediterraneo). Dalla cura sono emersi paesi con una forte capacità competitiva e con una finanza pubblica solida, in grado di accumulare un avanzo delle partite correnti nell’ordine del 7%. L’ottimo stato di salute degli Emergenti spinse Jim O’Neill di Goldman Sachs a prevedere il decollo dell’economia dei Bric (Brasile, Eussia, India e Cina): la crescita del manifatturiero, combinata con la richiesta di materie prime in arrivo dal Sud America o dall’impero ex sovietico.



2 – Nello stesso periodo, l’America ha accumulato un consistente debito gemello (bilancia dei pagamenti e deficit statale). In Europa, il saldo complessivo era all’apparenza più solido, ma si trattava di un quadro a tinte contrapposte: la Germania accumulava un’enorme surplus nei confronti dell’Europa del Sud.

3 – I capitali, in quegli anni, si sono mossi da Occidente verso Oriente per finanziare gli investimenti in Cina o anche più in là. Un movimento gigantesco (circa 1.200 miliardi di dollari) foriero di grandi profitti che, una volta rientrati alla City o a Wall Street, hanno alimentato l’ascesa delle Borse o il finanziamento del boom immobiliare.

4 – Il giocattolo si è rotto con la crisi dei subrprime Nell’inverno 2008-2009, nel momento più buio della Grande Recessione, America ed Europa chiesero all’Asia di spendere i quattrini accumulati aggressivamente in consumi e investimenti. La turbo-crescita dell’Asia ha portato grandi benefici alle esportazioni europee e americane, ma ha creato anche bolle immobiliari e una crescita eccessiva di crediti al consumo, per lo più finanziati in dollari, come è accaduto in Turchia.

5 – La politica espansiva della Fed (e della Bce), oltre a consentire all’’Occidente di curare la ristrutturazione delle imprese ha così “drogato” i sogni del Brasile lanciato alle spese per i Mondiali piuttosto che il miraggio di grandezza di Istanbul, che per Erdogan dovrebbe presto ospitare la terza Borsa del pianeta (oltre che il primo aeroporto del mondo). E così via. Oggi, però, la storia presenta il conto: l’attivo delle partite correnti si è rimpicciolito, è tornato a salire il debito estero. E i dollari riprendono la strada del ritorno sotto la regia di Washington Vacillano le monete di India, Thailandia, Indonesia, Brasile, Turchia e altro ancora. Una frenata è d’obbligo e se non la si fa adesso si rischia un crash più avanti.

6 – Il giro di boa, fino a poco tempo fa, non sarebbe stato ipotizzabile. Il surplus commerciale cinese o degli altri Emergenti finiva infatti per sostenere il debito pubblico Usa (e in misura minore anche dell’area euro). Di qui una politica monetaria accomodante che è servita a proteggere gli investimenti nei Bond del Tesoro Usa, naturale sbocco dei creditori asiatici. Ma le cose, in questi mesi, sono cambiate: da maggio a luglio, gli Emergenti (Cina esclusa) hanno venduto Bond per 81 miliardi di dollari, Cina e Giappone hanno fatto più o meno altrettanto. Tokyo e Pechino sono così riuscite a evitare brusche minusvalenze (il prezzo dei titoli è arretrato del 14% in un anno). Istanbul, New Delhi e Brasilia non sono riuscite a limitare la frana delle valute nazionali. Nel frattempo, le Borse occidentali non hanno subito scossoni particolari, a partire da Wall Street.

7 – La realtà è che gli Stati Uniti hanno ormai cambiato pelle. Non solo, grazie alla tecnologia, è stata consolidata una leadership ormai tradizionale, ma, per merito del boom dell’energia, gli Usa si sono affrancati dalla dipendenza energetica. La ripresa, favorita anche dal rilancio dell’immobiliare e dal risanamento del credito (cui non sono stati estranei i forti investimenti asiatici) è ancora fragile. Ma, dato forse sottovalutato, il deficit pubblico americano si sta riducendo a vista d’occhio mentre la bilancia dei pagamenti, grazie all’energia, al settore agricolo (e del bestiame in particolare) sta registrando un miglioramento formidabile.

8 – La stessa Europa, dopo anni di crisi, appare meno brutta se vista dal di fuori. Gli sforzi di riequilibrio della parte meridionale del Continente cominciano a dare buoni frutti, le prospettive di ripresa sono più incoraggianti di quanto offerto dai latini Emergenti. Di qui la novità, non da tutti ancora compresa: molti capitali in uscita dagli Emergenti, dopo aver fatto tappa a Wall Street, proseguono la rotta verso gli Etf e fondi azionari europei. Italia non esclusa.

9 – In prospettiva non mancano perciò le buone opportunità. A meno che non si commettano errori fatali, quelli temuti da El-Erian che individua un poker di pericoli per l’autunno. Ovvero: a) le turbolenze legate alle nomine ai vertici della Fed, che minacciano di depotenziare la cabina di regia della finanza mondiale nel momento più delicato; b) l’emergenza del Medio Oriente; c) le esitazioni dell’Abenomics in Giappone, di fronte alla scelta cruciale se aumentare o meno la pressione fiscale per fronteggiare il debito; d) La situazione rischio in almeno tre Paesi dell’area euro (Grecia, Cipro, Portogallo) che richiederanno nuovi interventi dopo le elezioni tedesche. Guai se Bruxelles, al solito, esiterà.

10 – C’è anche un “dolce” pericolo a medio lungo termine, di cui parla Fugnoli. Un economista di grande acutezza, David Rosemberg, già prevede che il ciclo espansivo in atto modifichi i rapporti di forza tra i soggetti del’economia. I benefici della prossima fase di crescita potrebbero andare al lavoro, non più ai profitti delle imprese. Certo, ci sono ancora in giro milioni di senza lavoro. Ma non c’è più disoccupazione in Germania e l’America sembra avviata a risolvere il problema nei prossimi 2-3 anni. Oltre Oceano si vedono già i primi segnali di aumento del potere contrattuale del lavoro. Questo, visto con gli occhi delle Borse, vuol dire: più salari e meno profitti. Ma sarà una grande boccata di ossigeno per le democrazie. Ben vengano le insidie di questo tipo.