Terribile agosto, questo del 2013. Molti nodi son venuti al pettine. E in tutto il mondo, in una sorta di redde rationem che inizia dall’orizzonte mondiale per concludersi nella crisi nazionale, a riprova della giustezza delle teorie che fanno del legame tra nazione e internazionalizzazione il nesso fondamentale per comprendere il filo rosso della storia.
In primo luogo guardiamo al mondo sotto la lente dell’economia innervata nell’anello della politica internazionale. Due sono i fenomeni più rilevanti. Il primo è quello della svolta intrapresa dalla globalizzazione. Il sostenuto ritmo di crescita dei Brics è giunto non al suo termine, ma al termine della prima fase della loro crescita, come ci insegnavano le teorie kaldoriane dello sviluppo e la riflessione di Myrdal. La rapida crescita fondata sui beni strumentali e sulla creazione di classi urbane proletarie e medie si è conclusa. Nei paesi non comunisti questo ha dato vita a una classe di borghesia contadina e agraria che consente il superamento della crescita fondata solo sull’accumulazione di beni strumentali, ma che deve fondarsi anche sui consumi grazie alle riforme agrarie che hanno caratterizzato nazioni come il Brasile e l’India, anche se in misura minore e molto meno articolate in senso proprietario privato, come in India per esempio, ancora dominato da una cultura comunitaria molto forte.
L’arretratezza dell’India rispetto al mercato interno e nel campo della circolazione monetaria è esplosa in questi giorni con la sorpresa di tutti coloro che pensano che l’economia si comprenda leggendo le statistiche e non studiando la storia e l’antropologia. La maggioranza degli indiani non scambia moneta ma beni e anche la moneta non è in maggioranza tesaurizzata nelle banche. Il crescente grado di interrelazione nell’economia mondiale mostra tutti i limiti di questa arretratezza nel campo della circolazione monetaria. È la stessa crescita a porre in evidenza il problema e a provocare in questa situazione il deprezzamento di una moneta così scarsamente tesaurizzata. Ce lo aspettavamo, noi che non crediamo che tutto sia sempre in equilibrio, dagli Usa all’India alla Papuasia…
La Cina si trova, invece, in un vero cul de sac perché la borghesia agraria non si è formata e le città si riempiono di non-cittadini clandestini che non possono consumare come dovrebbero le masse inurbate, e in tal modo al Cina cade in tutte le trappole dei paesi a economia burocratica e a capitalismo di stato diretto da dittature terroristiche: la decadenza inizia per la sovraccapacità produttiva di beni strumentali ingigantita dalla rivoluzione disastrosa della finanza che ha sconvolto equilibri secolari, mentre creava asimmetrie mondiali grazie all’entrata dell’Impero di Mezzo nel Wto nel 2001. Ciò ha fatto collassare il rapporto disuguale “post Bretton Woods” tra economie metropolitane mondiali ed economie mondiali periferiche.
La concorrenza asimmetrica diviene ora un ostacolo per la crescita della stessa Cina che non riesce a creare mercato interno, mentre – paradossalmente – esporta lavoro forzato in tutto il mondo per ricercare energia e terra coltivabile che non riesce a produrre in casa propria per via dell’economia diretta burocratico-terroristica.
Diverso il caos della Russia: soffre dell’isolamento di una grande nazione prigioniera e solitaria tra un’Europa ostile che vuole le sue risorse energetiche, ma non le permette di espandersi grazie a regole concorrenziali demenziali (che stanno mandando tutta l’industria europea in decadenza per caduta dei margini e assenza di consolidamento tacciato di monopolio peccaminoso, avendo dimenticato il sacro testo di Sylos Labini su “Oligopolio e progresso tecnico”…) e una Cina con cui deve negoziare per il rifiuto Usa ed europeo di riformulare il volto complessivo del mondo post guerra fredda. Infatti si è immaginato che si possa continuare a produrre crescita escludendo la Russia dall’Europa e dal mercato mondiale: solo nel 2011 la si è ammessa nel Wto ratificando una incapacità tragica degli Usa di comprendere il nuovo mondo post Reagan e post Gorbaciov.
I Brics cresceranno meno e con ritmi più lenti e questo riclassifica tutta la crescita dell’America del Sud, salvo il Mexico e la Colombia, che hanno scelto una via non così legata al ciclo furioso delle commodities. Che, per altro, appunto, ora sta crollando, trascinando con sé i paesi commodites dipendenti… Tutti gli altri paesi saranno costretti a riclassificare i rapporti tra industrie mineraria e oil and gas e il ciclo mondiale, rivolgendosi sempre più sia verso il mercato interno sia verso nuovi mercati esteri. È ciò che chiedono in fondo le loro classi medie mobilitantisi in questi ultimi mesi e che espimono bene le teorie di Tilly, Hamson e mie quando studiavamo i fenomeni di mobilitazione collettiva. Fenomeni che si determinano solo in fasi ascendenti dei cicli economici e politici e per imporre cambiamenti nell’agenda dei consumi. Ora le classi medie di quei paesi vogliono infrastrutture, beni immateriali come la cultura, la qualità della vita e riscoprono in tal modo ogni tradizione (il ciclo politico) che può preparare la loro solidarietà organizzativa. Ecco il laicismo in Turchia e l’indigenismo in alcuni paesi sud americani, come lì è già avvenuto e come avverrà tra poco in forme assai più dispiegata: si veda il caso non solo della Bolivia, ma soprattutto del Perù, epicentro di tutte le culture politiche sudamericane. Ciò avrà profonde conseguenze in merito allo sfruttamento delle risorse minerarie, aprendo un nuovo capitolo della storia energetica sudamericana.
Naturalmente il mondo è ora dominato dal conflitto nordafricano, che vede il ritorno del nasserismo rivisitato e riclassificato dai cambiamenti intervenuti sulla scena internazionale con la caduta dell’Urss, con il riemergere dei militari come forza di stabilizzazione in forma diversa dal passato. Con Nasser e anche con il bathismo e quindi anche in Siria e in Iraq essi costruivano la nazione: oggi la difendono dal cosmopolitismo post-distruzione del Califfato (con Ataturk) che ha dato vita alle fratellanze musulmane e ora pone in pericolo lo stesso rapporto con l’Occidente tra ciò che rimane di quel passato e le nuove formazioni ierocratiche che cercano in vario modo di assumere il potere − dopo la caduta dello Scià in Persia − in tutto il Medio Oriente e in tutte le aree musulmane mondiali. Godono dell’appoggio di potenti forze statuali come l’Iran da un lato e l’Arabia Saudita e il Quatar dall’altro. Ciò è dinanzi a noi tutti grazie alle cosiddette primavere arabe che si sono presto rivelate per ciò che sono realmente e su cui anch’io ho scritto distesamente: una rivolta di classi medie sia laiche sia islamiche l’una contro l’altra armate.
E, tuttavia, incoraggiate dalla moral suasion degli Usa, decisi a rinnovare il blocco di comando egiziano fondato su militari saprofiti ma efficienti nel mantenimento dell’ordine nei confronti in primo luogo di Israele. L’ incomprensione dei cambiamenti avvenuti nel mondo arabo e persiano e turco da parte degli Usa è stata catastrofica, impedendo a essi di valutare l’instabilità del radicamento istituzionale dei Fratelli musulmani. Non basta aver costituzionalizzato il proprio comportamento come è accaduto in Giordania e in Marocco (sacre monarchie, però, non dimentichiamolo, per la discendenza diretta di esse dal Profeta!) per circa cinquanta anni, non basta tutto ciò per essere in grado di governare un paese come l’Egitto o la Libia!, superando i legami con le radici islamiche fondate sull’identità di legge islamica e legge dello stato. Si è dimenticato che l’ala dura dei fratelli safarditi non solo godeva di un forte appoggio da parte sia dell’Arabia Saudita sia del Quatar (paesi l’un contro l’altro in competizione per questioni di potere regionale). Non bastava quindi sostituire ai militari coloro che si pensava si fossero costituzionalizzati per trasformare il sistema di pesi e di rilevanze nel Medio Oriente e in Nord Africa.
Il meccanismo di disinnesco della dittature militari con una riforma politica affidata a forze come i sunniti radicali ha avuto lo stesso effetto che si è prodotto in Iraq e ben prima in Iran, portando di fatto al potere lo sciismo più intransigente che costituisce ora il fattore che, dopo aver destabilizzato la Libia e la Siria, comanda in Iraq e dall’Iran dilaga nelle terre centro-africane ponendo in forse la stabilità dei Congo che si erano costruiti faticosamente dopo le guerre dei grandi laghi e i genocidi che avevano lasciato il posto a una partizione territoriale sino a ora inusitatamente affidata alle élites africane direttamente negozianti; sia con la Cina sempre più invadente, sia con le antiche potenze coloniali, Francia e Regno Unito in primis.
La riclassificazione dei poteri in Centro Africa non potrà non fare i conti con la stabilizzazione della Nigeria. Questo è il nation building fondamentale per comprendere − unitamente ai Congo − quale sarà il destino di queste terre e di queste culture. Più complesso ancora il problema di tutta l’aerea che va dal Marocco e dal Golfo all’Iran e che costituisce la nuova terra di confronto nel mondo islamico, che vede sempre più allontanarsi da sé il ruolo egemonico degli Usa con conseguenze che possono essere devastanti se questo vuoto non viene subito colmato. Il tema energetico è fondamentale ma non sufficiente per comprendere la situazione. Anche nel 1956 − in occasione della guerra scatenata da Israele, Francia e Regno Unito contro Nasser, il quale nazionalizzava il Canale di Suez − gli Usa colsero l’occasione per sostituirsi alla decadenza dell’egemonia inglese con una spregiudicata lotta contro l’influenza sovietica che salvò l’Egitto e Israele, insieme, dalla rovina.
Ora il gioco è più complicato. Certo: gli shale oil and gas determinano un indebolimento crescente dell’ Opec, come è denunciato dai sauditi con pronte smentite e fenomenologiche evidenze di divisioni nella famiglia reale: ma il confronto con l’Opec è assai più antico. Inizia da quando, alla metà degli anni 70, le riserve proven and unproven hanno iniziato a concentrarsi non più nelle mani delle majors, ma invece in quelle delle Nocs, ossia delle compagnie nazionali in prevalenza non Opec che oggi ne posseggono il 90%.
E questo ha generato una rivoluzione tecnologica impressionante, nella disintermediazione delle majors medesime che hanno contrattualizzato la disintermediazione vendendo alle Nocs le capabilities per affrontare i nuovi orizzonti tecnologici che via via si sono delineati. Questo ha provocato un aumento della concorrenza e un affollarsi di nuove presenze indipendenti nell’oligopolio energetico mondiale. Ciò è esploso con la realizzazione del sogno del grande George Mitchel, il quale, dopo anni e anni di difficoltà, è riuscito a rendere operativo il suo sogno dell’estrazione del gas e dell’oil dal fracking, al cui progetto aveva lavorato tutta la vita (1919-2013) con una generosità utopica che è, ahimè, ormai scomparsa nel mondo energetico mondiale.
Ma la rivoluzione dello shale oil and gas produce trasformazioni sia geostrategiche sia macroeconomiche sia microeconomiche. E queste ultime si concretano nella trasformazione dell’industria energetica, perché ridanno spazio alle piccole imprese indipendenti per il numero di wild cat di cui necessita lo shale oil e per il profondo ribasso del prezzo del gas provocato dalle scoperte shale, con un aumento, tuttavia, del costo del trasporto che non potrà che rivoluzionare anche le strategie di intermobilità su scala locale e mondiale. Macroeconomicamente il ruolo del carbone e del petrolio è destinato ad aumentare nelle zone non interessate dal fracking, perché gli Usa intensificheranno la loro raggiunta indipendenza energetica esportando molto meno oil and gas di quanto facessero un tempo: il tutto mette in discussione il livello dei prezzi, con una riclassificazione degli andamenti di redditività delle majors, che mentre vedono aumentare i costi di estrazione e di trasporto vedono diminuire il prezzo dell’oil e del gas sia per il fracking, sia per la crisi economica mondiale ancora in corso.
Essa, anzi, si sta accentuando proprio nei Brics, che sono i più interessati dai processi di fracking per il loro basso grado di antropizzazione. Ma la conseguenza più rilevante è geostrategica, con la costante perdita di interesse degli Usa per dominio dell’area del Golfo e in generale nordafricana e mediorientale. Si apre un pericoloso vuoto di potere perché l’Europa non è in grado di colmare tale vuoto per le sue divisioni interne: per l’assenza di un esercito europeo, per le conseguenze devastanti dell’austerità economica che ha distrutto l’industria nei suoi capisaldi sud europei e che in alcune sue aree forti è sottoposta a rischi di crollo del procurement e dei mercati interni o di errori di governance per le divisioni franco-tedesche come dimostra il caso Eads. Le pulsioni imperiali benefiche della Francia non hanno dietro di sé la forza economica per essere sostenute militarmente ed economicamente. Solo un’Europa che integri in sé la Russia potrebbe svolgere il compito egemonico adatto per porre sotto tutela e sotto stabilizzazione − alternando interventi militari, gioco diplomatico e accordi commerciali – un’area destinata a essere centrale per la stessa sopravvivenza dell’ Europa sia dal punto di vista della sicurezza interna (per la penetrazione possibile di cellule terroristiche islamiche) sia per il suo sviluppo per il reservoir di energia presente nell’area e che rischia di finire nelle mani di una Cina sì in decadenza, ma, proprio per questo, sempre più pericolosamente aggressiva.
Il fatto che si stia delineando una alleanza tra Arabia Saudita, Israele e Russia per porre sotto controllo la situazione siriana sostenendo Assad e sostenendendo i militari egiziani che hanno salvato l’Egitto e l’Occidente dalla creazione di un enorme stato islamico salafita destinato a minacciare sia l’Europa sia il Centro Africa, è un dato positivo: ma la sua istituzionalizzazione deve superare un’enorme difficoltà. In primo luogo culturale, per la caduta della cultura di Westfalia e la vergogna delle teorie dell’intervento umanitario e dei diritti umani senza riguardo alcuno per le compatitibilità e le specificità culturali delle nazioni e dei popoli e delle élites con cui si viene in contatto. Tutto ciò ha fatto sprofondare l’Occidente in un antikissingherismo di cui solo ora stiamo iniziando a valutare gli enormi prezzi da pagare. La rottura militare tra sciiti e sunniti non è che l’inizio di una lunga guerra inter-islamica (che continua quella tra Iraq e Iran che troppo presto abbiamo dimenticato) che potrà essere risolta solo ponendo nuovamente in comunicazione tra loro le tre culture fondamentali dell’area: quella araba, quella ottomana (e ora turca) e quella persiana. L’Occidente deve svolgere questo ruolo. Il Regno Unito è il più attrezzato culturalmente per compiere questa opera. L’Italia ha immense risorse non sfruttate che può porre in campo solo volendolo.
In tutto questo contesto, invece, l’Italia sta cadendo a pezzi. Non ci si aggancia certo alla tiepida ripresa europea generata dal fatto che si deve toccare il fondo prima di una nuova timida ascesa del ciclo prima discendente, che sarà seguita da una nuova recessione con un nuovo abbassamento del Pil. Il dato di fondo, infatti, è la restrizione dei consumi tra imprese e imprese, ossia tra macchine e macchine, come accade quando si vendono macchine e quindi merci a mezzo di merci. È la circolazione organica del capitale che sta interrompendosi anche per la deflazione che, mentre abbassa i margini d’ impresa, provoca la restrizione di consumi. In questa situazione ci si interroga ancora se abbassare o no le tasse. Incredibile! L’austerità teutonica sta aggredendo, del resto, anche la stessa Germania. La Merkel stravincerà le elezioni, ma la crisi giungerà ugualmente in Germania. E questo perché l’accumulazione disuguale e ciclica del capitale è più forte di qualsivoglia ideologia liberista-monetarista, anche nella stessa terra della Merkel. Ella è destinata a vincere le elezioni di settembre nelle sue terre portando in tal modo alla rovina l’Europa.
Ho già detto troppo sull’insensatezza del consentire ai tedeschi di imporre il loro diktat su tutto il continente. Solo il ricordo di Paolo Baffi ci sostiene sperando che oggi vengano rilette le sue parole, i suoi scritti e si riformuli tutta la Costituzione europea che fu accettata dall’Italia nell’illusione mortale che il vincolo esterno monetarista avrebbe cambiato la sorte di una nazione nei suoi tratti fondamentali. Dove si verifica quanto la stupidità neoclassica e monetarista sia foriera di immensi danni sociali, morali, culturali, spirituali generando le stragi degli innocenti che il capitalismo finanziario ha poi amplificato secondo la previsioni di Minsky. Le sue pagine vanno lette insieme a quelle di Baffi per comprendere cosa è successo in Italia e in Europa in questi ultimi venti anni. È sempre la cultura, infatti, che decide dell’economia e non viceversa.
Ora, in Italia, in una situazione siffatta si parla come se nulla fosse di crisi di governo. È vero che l’Italia è ormai uno Stato a frantumazione dei poteri e a vertebrazione giudiziaria in una mucillaggine di stravolgimenti della nostra stessa Costituzione. Questo spiega perche tutti guardano − nel presidenzialismo di fatto ora determinatosi – alla grande figura di Giorgio Napolitano. Certo: gli Usa e la Merkel (l’Europa non esiste, ma la Germania sì e ha potenti interessi geostrategici nelle aree a rischio di implosione nel Mediterraneo) non possono pensare che con l’Egitto e la Sira in fiamme l’Italia collassi in un buco nero economico (i dati sulle competitività regionali recentemente diffusi su scala europea son lì a dimostrarlo, a proposito di ripresa…). Non possono permettere, per esempio, sia che nulla si faccia internazionalmente, sia che si sprofondi nel caos istituzionale e sociale che attizzerebbe mille fuochi nella prateria. Anche se si intervenisse in Siria militarmente, contro il parere della Germania, il problema rimarrebbe: anzi si farebbe più acuto e drammatico. Il Sinai diverrebbe ingovernabile, così come la Siria stessa e tutta l’area nord dell’Africa. Non sbarcherebbero più solo persone disperate e umiliate dalla miseria e dal terrore, ma anche cellule armate ideologicamente e militarmente che non si affiderebbero certo ai miseri barconi. Le coste della Sicilia e della Calabria e della Puglia diverrebbero il prolungamento di una sanguinosa guerra ideologica in uno stato, quello italiano, senza testa.
È questo contesto drammatico che ci deve imporre la stabilità istituzionale. E oggi essa si identifica con la continuità del governo Letta-Alfano. I problemi, in verità, sono ben più drammatici di quelli del semestre europeo, pur importantissimo. Ancora una volta la stabilizzazione nazionale ha bisogno per inverarsi di un intervento internazionale, come sempre nei momenti più tragici e travagliati della nostra storia. L’agosto del 2013 è uno di questi momenti.