La prima rata dell’Imu non dovrà più essere pagata e, con la prossima legge di stabilità, l’imposta dovrebbe essere sostituita dalla nuova “service tax”, cioè una tassa sui servizi comunali, in vigore dal 2014. L’abolizione dell’Imu sulla prima casa risponde a un’esigenza sentita, e con ragione, da chi ha fatto sacrifici di una vita per la casa in cui vive: l’effetto sul mercato immobiliare è positivo, perché ristabilisce certezza normativa e di costi, ma non al punto di rovesciare la dinamica negativa del settore e l’eccesso di offerta di abitazioni, perché la potenziale domanda continua ad essere frenata dalla caduta dell’occupazione e del reddito disponibile, in particolare delle giovani coppie.
L’Imu scompare e con essa anche l’urgenza di un aggiornamento degli estimi catastali, se non ai fini dell’Irpef per i redditi da fabbricati: è stata comunque un’occasione per costatare le grandi disparità esistenti anche nella proprietà di case e quindi la necessità di riportare su maggiori basi di equità il sistema fiscale, potendo disporre di una nuova banca dati dell’Agenzia delle entrate, che oggi consente di conoscere i prezzi di mercato, per acquisto e affitto, delle abitazioni per microzona catastale.
Ma l’Imu è solo una delle molte imposte e non si può dimenticare che nel 2012 la pressione fiscale è aumentata al massimo storico del 44% del Pil, con un aumento di 1,4 punti rispetto al 2011, superando di 4 punti la Germania e gli altri paesi dell’area euro: solo la Francia ha una pressione di poco maggiore ma con prestazioni sociali di gran lunga più estese. Un prelievo di 20 miliardi aggiuntivi in un anno di profonda recessione non è stata la politica più appropriata alla situazione difficile del paese, prova ne sia il fatto che il gettito dell’Irpef è rimasto invariato – perché i redditi delle famiglie sono congelati – e il gettito dell’Iva è diminuito perché gli scambi di famiglie e imprese sono anch’essi diminuiti.
In questo quadro le imposte addizionali sul reddito, regionali e comunali, sono invece aumentate del +25% in un solo anno, fra il 2011 e il 2012, raggiungendo il 9% del gettito Irpef: si tratta ormai di un onere a cui guardare con crescente attenzione, perché rappresenta ormai un prelievo alla fonte di quasi un decimo del reddito. A ciò si deve aggiungere che i regimi di aliquote regionali e comunali sono diventati una selva sempre più oscura e sconosciuta: le addizionali vivono ormai di vita propria, mentre la ragionevolezza suggerirebbe che dovrebbero essere sostitutive, e non aggiuntive, di una pressione fiscale già così elevata.
La tassa sui servizi comunali (perché chiamarla “service tax”?) è in linea di principio più accettabile, a condizione che si tratti proprio di una tassa nel senso proprio, cioè il corrispettivo di un servizio, o di un insieme di servizi prestati dal Comune in cui si risiede, piuttosto che di un tradizionale prelievo d’imposta: in questo modo i cittadini potrebbero mettere sul piatto della bilancia ciò che pagano con la qualità della pulizia delle strade o dei servizi sociali. Non è in realtà un esercizio semplice perché la gran parte delle infrastrutture chiave di una società moderna, come quella italiana, è reticolare e coinvolge una molteplicità di comuni.
Mentre la politica monetaria è migrata a Francoforte, la politica fiscale è ormai con un piede in Italia e l’altro a Bruxelles: nel corso degli ultimi due anni abbiamo sottoscritto impegni europei che stanno profondamente trasformando lo Stato e il ruolo della Pubblica amministrazione, in particolare per ciò che riguarda il decentramento fiscale e le competenze locali. Ma ciò sta avvenendo più sulla spinta delle emergenze che secondo un disegno, per quanto approssimato. Tuttavia ciò che oggi si decide crea nuove istituzioni e regole che una volta in vigore sarà difficile cambiare, o migliorare: è necessaria una visione più complessiva del sistema fiscale perché con il livello di pressione fiscale raggiunto, la sua riduzione, centrale o locale, diventa ormai lo snodo decisivo per la crescita al paese.