Italia e Spagna stanno vivendo destini paralleli. Per entrambi gli spread restano (relativamente) bassi, le aste di titoli di Stato estive sono andate bene, ma l’economia reale lancia quotidiane grida di dolore. In compenso, i paralleli sono anche politici. Sia il governo iberico che quello italiano parlano una lingua improntata al cauto ottimismo, parlano di segnali di ripresa, azzardano il fatto che il peggio della crisi sia ormai alle spalle e vaticinano alcuni indicatori – del tutto stagionali e ciclici, come ad esempio l’impatto del turismo sull’occupazione per quanto riguarda la Spagna – a conferma delle loro tesi. Entrambi i governi, però, sono anche pericolosamente in crisi. Quello guidato da Mariano Rajoy per lo scandalo corruzione del Pp, quello guidato da Enrico Letta per gli scossoni innescati nella già fragile architettura dell’esecutivo dalla sentenza della Corte di Cassazione che ha condannato Silvio Berlusconi per il processo dei diritti tv Mediaset. Non mi pare eccessivo, né pessimistico dire che – a meno di interventi straordinari o straordinarie mutazioni degli equilibri – quasi certamente questi due governi non passeranno l’autunno indenni, visto che dopo il 22 settembre – data delle elezioni politiche in Germania – la tregua sui mercati europei sarà definitivamente finita.



L’appello di Napolitano al Paese affinché resti coeso, quasi la sentenza giunta dal Palazzaccio fosse stata la strage di Capaci, fa capire quanto la situazione sia delicata. Il ministro della Difesa, Mario Mauro, poi, ha avvertito che «se cade Letta, si torna al voto». Con l’attuale legge elettorale? Giorgio Napolitano in tal senso è stato chiaro, tanto da far trapelare il fatto che le sue dimissioni sarebbero già pronte, firmate e riposte nel cassetto. In quel caso, sarebbe crisi al buio. E sarebbe anche la fine, perché i mercati non aspetterebbero oltre: urne anticipate, con cotè di caos sui tempi e i modi per arrivarci, significherebbe spread a 400 in una settimana.



Sono gli investitori a dirlo: non c’è stata banca d’affari che, subito dopo la sentenza della Cassazione, non abbia detto chiaro e tondo che l’unica dinamo per una nuova crisi finanziaria italiana sarebbero le elezioni anticipate. Tanto più che, come dicevo prima, il reale stato dell’economia – e questo vale anche per la Spagna – giustificherebbe almeno nella prima parte un panico generalizzato da rischio-Paese. Le nostre banche hanno raggiunto la cifra record di 395 miliardi di titoli di Stato nei loro bilanci, lo ha confermato nel fine settimana la Cgia di Mestre, i cui calcoli vedono i bond governativi detenuti dai nostri istituti di credito saliti dal dicembre 2011 dell’88,5% (da 209,6 ad appunto 395,1), il tutto a fronte di una capitalizzazione totale di Borsa dei nostri istituti di credito di circa 65 miliardi, contro i 261 del 2007. Potrebbero reggere, al netto dei criteri valutativi già penalizzanti di Bce, Eba e Banca d’Italia, a un dimezzamento del valore di quelle obbligazioni? No. Morirebbero. Pressoché tutte.



Per contro, i prestiti erogati dal nostro sistema creditizio alle imprese sono diminuiti del 5%, che in termini assoluti corrispondono a meno 49,3 miliardi di euro erogati. Sempre in questo periodo, le sofferenze in capo al sistema imprenditoriale sono aumentate del 29,4% (variazione assoluta +23,7 miliardi) e a maggio di quest’anno hanno raggiunto un volume di 104,2 miliardi di euro. La tendenza si è rafforzata anche in questa prima parte dell’anno: tra il dicembre 2012 e il maggio 2013, lo stock dei titoli di Stato in possesso delle banche è cresciuto di 64 miliardi di euro, le sofferenze in capo alle aziende sono cresciute di 4,2 miliardi, mentre gli impieghi alle imprese sono diminuiti di 17,1 miliardi. E un altro dato pare esemplificativo della situazione in cui versano i nostri istituti. Al 24 aprile scorso, ultimo dato Bankitalia disponibile, le banche italiane avevano restituito solo 3,5 miliardi dei 255 presi in prestito dalla Bce nelle due operazioni di finanziamento a lungo termine del dicembre 2011 e del febbraio 2012. Briciole, quindi.

Il dato è discordante, visto che a fine giugno l’esposizione a medio-lungo termine delle banche italiane nei confronti della Bce è scesa a 244,4 miliardi di euro, quindi circa 10 miliardi in meno rispetto a quanto ottenuto nelle ormai note operazioni a 3 anni. Ma l’ammontare rimborsato potrebbe essere anche superiore, dato che quella cifra comprende tutte le operazioni non a breve termine, tanto è vero che l’anno scorso l’aggregato era salito anche a 280 miliardi, ben oltre quindi gli ormai ben noti 255 miliardi. Insomma, nella migliore delle ipotesi arriviamo a circa 20 miliardi di soldi restituiti all’Eurotower. Un dato comunque inferiore al 10% di quanto incassato a suo tempo e di gran lunga al di sotto rispetto a quanto hanno nel frattempo restituito le banche francesi o le tedesche, perfino quelle spagnole.

Chi ha cominciato a ridare le briciole a Francoforte poco interessa, non saranno certo quei pochi miliardi a innescare lo stigma virtuoso nei confronti dei mercati, a garantire un’aura di forza e di solidità agli occhi degli investitori. Anzi, lo stigma potrebbe innescarsi al contrario per l’intero settore, vista la “moral suasion” esercitata da Bankitalia per non arrivare con l’acqua alla gola alle naturali scadenze di fine 2014 e inizio 2015, di fatto totalmente o quasi ignorata. Ora, guardiamo in faccia la realtà. So anch’io, benissimo, che siamo di fronte a uno schema Ponzi in piena regola, a una follia che il mercato prima o poi punirà, ma sarebbe ingeneroso criticare tout court le banche italiane per queste scelte. Se hanno deciso di acquistare i nostri titoli di Stato in maniera così massiccia non possiamo disconoscere che ciò ha contribuito a immettere una forte dose di liquidità nel sistema, salvando l’Italia dal crac finanziario. Che, parliamoci chiaro, era dietro l’angolo. È altrettanto vero, però, che in questi durissimi anni di crisi le banche di credito cooperativo, le popolari e le casse di risparmio hanno continuato a erogare credito al territorio: occorrerebbe, quindi, un bilanciamento.

E chi dovrebbe garantirlo, stante che le banche non sono opere pie, ma soggetti privati che devono generare utili? Bankitalia. La quale, ieri, nella persona del suo governatore, Ignazio Visco, ha incontrato il premier, Enrico Letta, per fare il punto della situazione dei conti dello Stato, al netto anche degli ammanchi che rinvio dell’Imu e dell’aumento dell’Iva hanno generato. Per il numero uno di Palazzo Koch, in questa fase di lenta e delicata ripresa dell’economia – dove l’abbia vista non si sa – sarebbe davvero fatale un nuovo shock o, peggio, un lungo e rissoso periodo di instabilità. Un solo aumento di mezzo punto dei rendimenti dei titoli di Stato vale infatti qualcosa come 2,5 miliardi in un solo anno, 5 il secondo, per schizzare a 6 nel terzo. C’è poi il problema delle agenzie di rating, che hanno già messo nel mirino un’altra volta il Bel Paese: non è un caso che il governo abbia preso una posizione netta al riguardo, di fatto chiedendo in sede europea quello che è un disconoscimento del loro operato e l’istituzione di un soggetto valutativo davvero indipendente.

Dopo un periodo relativamente lungo di tregua, Visco teme soprattutto la reazione dei mercati, fino a oggi comprensivi nonostante il recente taglio del rating di Standard&Poor’s: il governatore sa bene che il termometro dello spread è pronto a schizzare verso l’alto qualora lo scenario delle elezioni anticipate divenisse realtà. Del resto proprio Visco, quasi a preconizzare il futuro, aveva detto un paio di settimane fa che il Paese è ancora in una «fase critica, perché c’è un problema di stabilità istituzionale e politica che incide sulla capacità di cogliere le opportunità». Tutto vero, sacrosanto. Il problema però è un altro, almeno a mio avviso. Se le cose stanno così – e stanno in parte così – perché Bankitalia continua a massacrare le banche italiane con richieste di ricapitalizzazione, indagini sul provisioning e quant’altro? Non si rende conto che, stante la situazione, così facendo sta mettendo un bersaglio sui nostri istituti di credito? Mezza Europa ha usato aiuti europei e di Stato per salvare banche che erano profittevoli come un baracchino di salamelle davanti a San Siro e noi ci facciamo massacrare un giorno sì e l’altro pure per Monte dei Paschi? Anzi, prestiamo il fianco e quasi quasi agiamo da ufficio studi del Financial Times per fornire fango da mettere nel ventilatore mediatico.

So che le banche italiane sono deboli ma quelle spagnole, forse, sono forti? E quelle francesi, con leverage da hedge fund? E quelle tedesche, Deutsche Bank in testa, che hanno più derivati in pancia di JP Morgan? E Dexia? E le banche greche o portoghesi? Sono forse messe meglio le banche cipriote? La Banca di Spagna spaccia metadone come non ci fosse un domani, tanto che Cnbc due settimane ha avuto l’ardire di pubblicare un articolo in cui raccoglieva i giudizi univoci di alcuni analisti per i quali i titoli degli istituti di credito iberici erano ormai degni di tornare nei portafogli di investimento. Ora, al netto del fatto che è più sicuro mettersi un cobra nelle mutande che comprare azioni di banche spagnole, perché Bankitalia sposa la linea Tafazzi mentre il resto d’Europa racconta balle e sfrutta la tregua garantita dalle elezioni tedesche? Perché rendere note ai quattro venti le paure che albergano, invece che prepararsi in silenzio ad affrontarle, senza per forza doverci riempire le pagine di giornali?

Verrebbe da chiedersi a che gioco stia giocando Bankitalia. E, vi assicuro, non sarebbe una domanda retorica.