“Per quanto riguarda la disoccupazione, la previsione è di un tasso medio per il 2013 del 12,3%, del 12,4% per il 2014 e dell’11,8% per il 2015, con un lieve miglioramento che seguirà, con un certo ritardo, la moderata ripresa dell’economia. Se mettiamo a confronto queste previsioni con quelle precedenti, non ci sono cambiamenti per il 2013 in peggioramento, nell’ordine dello 0,2% per i due anni successivi. Il peggioramento, nell’ordine dello 0,1% riguarda anche le prospettive a medio-lungo termine”. In queste poche righe, affogate nelle 192 pagine del Bollettino della Bce, emerge il vero dramma dell’eurozona. Non è solo questione di numeri, seppur così impressionanti. È, semmai, la fredda rassegnazione di fronte agli eventi, che contrasta con il comportamento di altre banche centrali.
La Federal Reserve, da mesi, condiziona la propria politica monetaria al raggiungimento di un obiettivo preciso sul fronte della disoccupazione: si alzeranno i tassi solo quando sarà raggiunto in forma stabile il livello del 6,5%. Mercoledì Mark Carney, neo governatore della Bank of England, è stato ancora più esplicito: i tassi resteranno bassi finche non si scenderà a un tasso di disoccupazione del 7%. Non solo. Da quel momento Boe modulerà i suoi interventi di modo da favorire l’individuazione del “punto di fuga”, ovvero il momento in cui l‘economia potrà procedere da sola, senza sostegni da parte della politica monetaria. A modo suo anche il kamikaze Kuroda, l’iper-espansivo stratega della politica monetaria giapponese, subordina la sua azione a un forte rilancio dell’occupazione. E lo stesso fa, a due mesi dalle elezioni, la Bank of Australia che taglia i tassi per contrastare l’aumento dei senza lavoro, più o meno il 7% della popolazione.
Insomma, il lavoro innanzitutto. Ma non nella vecchia Europa, che pure è quella che soffre di più. Certo, è assurdo accusare Mario Draghi di insensibilità nei confronti della tragedia della disoccupazione, soprattutto di quella giovanile. Ma lo statuto della banca centrale, e ancor di più l’interpretazione rigida delle regole da parte della Bundesbank, impediscono alla Bce di assumere un impegno più diretto sul fronte dell’occupazione. Anche se, come abbiamo visto, gli esperti dell’Eurotower non si fanno, né alimentano illusioni. Ma perché, nonostante la ripresa, seppur modesta, le prospettive dell’occupazione sono sempre più nere?
Due le spiegazioni. La mancanza di fiducia, per prima cosa. Nessuno si fa illusioni sulla forza, assai modesta, della ripresa del 2014. Ma più ancora, la ritrosia degli operatori economici a investire in nuova occupazione ha un’altra spiegazione: nessuno o quasi crede in una riforma del mercato del lavoro nei paesi che più soffrono. La Bce non fa nomi, ma l’esempio italiano salta all’occhio. E così, come dimostra il parallelo con la situazione Usa, si allarga la forbice con gli States, dove la ripresa dell’occupazione, favorita dalla politica della Federal Reserve (ostacolata, però, dai tagli alla spesa pubblica), è preceduta da una ristrutturazione profonda dell’apparato produttivo. Intendiamoci: la situazione Usa non è idilliaca. La minor disoccupazione rispetto all’Europa, sottolinea il raffronto degli esperti della Bce, è legata all’espulsione di molte donne dal ciclo produttivo (l’opposto di quel che si è verificato nel Vecchio Continente) ed è influenzato dal massiccio ricorso al part-time.
Il potere d’acquisto dei salariati è bruscamente calato, così come i consumi. Ma la velocità di reazione è senz’altro superiore e la distanza tra l’America, in pieno recupero di competitività, e l’Europa rischia di allargarsi. È questa la mina che va tenuta ben presente quando, come è comprensibile, si tende a vedere dopo anni di depressione, il bicchiere mezzo pieno.
In queste settimane, come continuano a ripetere i responsabili di governo, ha preso corpo la prospettiva di una ripresa, seppur modesta, dell’economia italiana così come quella della zona euro, dopo sei trimestri di contrazione. Non stupisce neppure che, dopo una recessione così violenta e drammatica, il copione della ripresa segua un meccanismo ben collaudato.
Innanzitutto, un graduale aumento della propensione al rischio da parte degli operatori finanziari, ben descritto dai tecnici della Bce. Per ora, infatti, non si vedono all’orizzonte progressi nei bilanci aziendali tali da giustificare l’euforia dei listini azionari che, almeno nel caso della Germania, hanno ormai raggiunto e superato i livelli del 2008. Ma in questi anni, nota la Bce, sul mercato azionario ha pesato un rischio anomalo, condizionato dalla paura del collasso della moneta unica. Il rialzo attuale, perciò, nasce dal superamento della paura. La maggior fiducia, rileva ancora la banca centrale, sta contagiando finalmente l’economia reale, a partire dall’export. Poi si trasmetterà alla domanda domestica.
A questo punto, secondo lo schema classico, l’economia dovrebbe assorbire nuova occupazione. Ma questo non accadrà. Un po’ perché i gruppi più impegnati nell’economia globale dovranno concentrare sforzi (e assunzioni) sui mercati che tirano. Un po’ perché le aziende, in questi anni, hanno congelato la situazione sfruttando gli ammortizzatori reali, ma non hanno creato spazio per attrarre nuova forza lavoro per rispondere alle esigenze del mercato.
In sintesi, non illudiamoci che la ripresa possa risolvere il problema dell’occupazione. Per ripartire, in questo campo, sono urgenti riforme a breve (cuneo fiscale, incentivi) e più ancora a medio termine (formazione, in primis). Altrimenti non si spezza il circolo vizioso di cui parla l’indagine di Mediobanca sulle 2035 imprese italiane: le aziende sono tornate a vendere quasi quanto prima della crisi, soprattutto all’estero, ma guadagnano sempre meno con una redditività che non solo è inferiore a quella che si registrava prima del 2009, ma che è vicina a quella dei primi anni 2000. Tutto per colpa di un contesto internazionale più efficiente sotto tutti i punti di vista, non ultimo il gap fiscale. Ma su questo terreno, Draghi può fare ben poco.