Oggi Barack Obama parlerà al popolo americano, da domani la parola passerà al Congresso ma l’attacco contro la Siria appare un’eventualità sempre più probabile. Non tanto perché la situazione sia precipitata, visto che la guerra civile va avanti da oltre due anni e fino a oggi 110mila morti non era stati sufficienti a suscitare lo sdegno di nessuno dei grandi del mondo, quanto perché la “warfare economy” appare un alleato preziosissimo nel tentativo degli Stati Uniti di uscire da quel labirinto pericoloso che è l’operazione “taper” della Fed. Papa Francesco, nel corso dell’Angelus, ha puntato il dito contro la vendita di armi che starebbe dietro la volontà bellica delle parti in causa, io temo che la questione sia ancora peggiore. Ovvero, questa guerra appare l’unica opportunità per gli Usa di vedere calare i tassi sul loro debito e riattivare il ciclo industriale, evitando quella drammatica rotazione da assets a cash che si potrebbe innescare se il Treasury a 10 anni toccasse o sfondasse quota 3,5%, livello non distante dal 3% toccato brevemente giovedì scorso ma più lontano dal 2,89% di ieri, un calo quasi interamente giustificato proprio dalla convinzione dei mercati che, alla fine, il Congresso darà luce verde all’attacco.
Ci sono però parecchie incognite dietro questa strategia, prima delle quali il rischio di escalation incontrollata del conflitto in tutta l’area mediorientale e la reazione di Russia e Cina. Insomma, il contagio del caos non appare un’ipotesi così peregrina. Ma come impatterà questo conflitto sui mercati internazionali? Sostanzialmente attraverso la diminuzione dell’appetito per il rischio degli investitori e l’aumento del prezzo del petrolio, in caso il fallout dei raid andasse a coinvolgere nella disputa anche Iran, Israele e altri Stati dell’area. Certo, quello siriano non rappresenta un contesto sufficientemente grande da impattare sui prezzi petroliferi nel lungo termine, ma un eventuale rischio di allargamento del conflitto porterebbe con sé la prezzatura di un premio di rischio sui mercati, opzione che innescherebbe quasi immediatamente un aumento dei prezzi, sostenuto indirettamente dai giochi tutti finanziari sul petrolio di carta, i futures.
Ma uno shock petrolifero può anche incidere in maniera diversa sul mercato azionario. Prendiamo l’esempio della guerra del Golfo del 1990-1991, quando lo shock sulle forniture si sostanziò in una correlazione negativa tra petrolio e Borsa, mentre un aumento del prezzo dovuto a crescita della domanda genera storicamente una correlazione positiva con l’indice S&P’s 500. Siccome difficilmente avremo questa seconda ipotesi sul monitor, non possiamo che pensare che un aumento del prezzo del petrolio dovuto allo scenario siriano andrà a impattare negativamente sugli assets rischiosi, spingendo al ribasso i prezzi proprio per la diminuzione tra gli investitori dell’appetito per il rischio. Diversa la relazione tra prezzo del petrolio e bonds, la chiave di volta dell’attuale situazione. Il rallentamento economico dovuto a un aumento del prezzo del petrolio normalmente porta con sé una diminuzione dei rendimenti, ma la crescita dell’inflazione (o la percezione di una crescita in arrivo), dovuta alla cosiddetta “bolletta energetica” su cui impatta l’aumento del prezzo del petrolio, può generare invece un aumento degli yields. Ma anche in questo caso un precedente della storia recente fa propendere per un effetto positivo sui rendimenti, come ci mostra questo grafico.
Dall’inizio dell’anno prezzi petroliferi e yields si sono mossi in tandem, crescendo stabilmente quasi allo stesso ritmo, uno dei frutti avvelenati del Qe della Fed, la quale vendendo l’idea di ripresa globale attraverso i soldi a pioggia delle manovre di stimolo ha generato un effetto domanda ciclico: miglioramento economico, aumento del prezzo del petrolio, aumento dei rendimenti. Insomma, una normale dinamica di ripresa sostenibile. Peccato che la ripresa fosse tutta artificiale, come i recenti dati che ci giungono da ogni dove nel globo dimostrano.
Ci sono però quei tre momenti particolari messi in evidenza nel grafico, in cui questa correlazione è saltata e all’aumento del prezzo del petrolio è seguita una diminuzione dei rendimenti. Quando? Quando il prezzo del petrolio si muove troppo in fretta, soprattutto al rialzo, segnalando così ai mercato un aumento del rischio che innesca il sentimento di avversione verso lo stesso a causa di eventi geopolitici: due chiare dinamo per il ribasso dei rendimenti. Più in generale, i tassi nominali calano se l’aumento del prezzo del petrolio è sufficiente per minacciare la ripresa e se è molto repentino: cosa meglio di una guerra, quindi? Oltretutto basata su raid e tempi rapidi, almeno stando a quanto dichiarato più volte da Barack Obama, scongiurando a parole il rischio di un secondo pantano iracheno.
C’è poi il secondo elemento che potrebbe andare a impattare sui mercati in caso di attacco, ovvero quello legato al premio di rischio, cioè la riduzione dell’appetito per assets rischiosi. Se infatti la crisi subirà un’escalation o gli investitori percepiranno il rischio di un peggioramento l’effetto immediato sarà quello classico della modaltà risk-off, ovvero fuga da investimenti pericolosi o high-beta, conseguente sell-off e ritorno in massa verso i beni rifugio, tra cui in testa i Treasuries Usa e altre forme di assets cosiddetti “risk-free” (la riottosa Merkel, paradossalmente, potrebbe finalmente vedere il rendimento del Bund abbandonare area 1,95-2% in caso di conflitto, proprio a ridosso delle elezioni politiche). E se il mercato compra Treasuries, il prezzo di questi sale e il rendimento scende, allontanando l’incubo di tassi in rialzo sul breve, una iattura ulteriore per il già malconcio mercato immobiliare e dei mutui Usa.
Storicamente, poi, gli analisti sanno che la miglior strategia di hedging in situazioni simili si basa su due elementi: cash e debito governativo core, ad esempio Usa o tedesco o giapponese. In passato il debito sovrano europeo è stato un po’ snobbato in circostanze simili, semplicemente perché non vissuto come risk-free dagli investitori che lo trattano come una media ponderata di tutti i debiti sovrani europei – core e periferici -, quindi tendente all’underperforming quando gli spread si ampliano: non penso che questa volta sarà così, la situazione europea è talmente frammentata che ormai sul mercato si sa che comprando Bund si compra solo Germania e comprando Germania si compra il vecchio marco e la sua solidità economica strutturale.
Nel suo report di due giorni fa, Ubs non aveva dubbi su chi sarà il beneficiario principale di un attacco in Siria e dell’instabilità che esso potrà generare: «Crediamo che l’unica asset class che potrebbe garantire protezione sia dal rischio di downturn economica che dall’aumento del premio di rischio sia la curva obbligazionaria Usa, in particolare la parte a breve scadenza, che noi nel nostro portafoglio denominiamo infatti come “cash”, oppure le scadenze più lunghe, sia in termini reali che nominali. L’unica decisione da prendere è su quale scadenza della curva Usa scommettere». Lo scrive Ubs, non il ministero delle Finanze russo o cinese o siriano per screditare Obama e il suo operato. Insomma, siamo in pieno regime di appetito di rischio “medium and falling”, ovvero il periodo in cui attendersi scommesse short sull’azionario e sull’obbligazionario legato all’inflazione e andare overweight su bond corporate delle economie avanzate e sovrani-core.
La fase inversa, tanto per vostra conoscenza, è quello del “medium and rising”, ovvero quando l’appetito per il rischio comincia a salire e allora si va short sull’obbligazionario sovrano e long su obbligazioni corporate e titoli azionari. La settimana che si è appena aperta, poi, vedrà più aste di Treasuries, quindi uno spotlight importante per gli investitori dopo la rottura della soglia psicologica del 3% sul decennale della scorsa settimana. Di più, domani avrà luogo la più grossa offerta obbligazionaria corporate della storia, con Verizon che offrirà tra i 20 e i 30 miliardi di dollari di bond per finanziare l’acquisto delle azioni di Verizon Wireless che ancora non detiene. Insomma, scadenze importanti quanto la riunione della Fed della prossima settimana, appuntamento prima del quale la numero uno del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, ha voluto ricordare come la Banca centrale Usa «non possa ignorare in fase decisionale (sul taper, ndr) il destino dei mercati emergenti».
Tornando un attimo indietro, poco fa non ho citato Russia e Cina a caso, ma perché rappresentano l’altra faccia della medaglia della scommessa bellico-economica di Washington. Mosca e Pechino, infatti, insieme detengono il 25% di tutto il debito Usa in mano a investitori stranieri, 1,414 triliardi di dollari, come mostra il grafico qui sotto. Come vi ho già detto qualche settimana fa, solo nel mese di luglio Cina, Russia e Giappone hanno venduto 57 miliardi di titoli Usa, costringendo la Fed a comprare per evitare un aumento eccessivo e autoalimentante dei rendimenti che facesse salire i tassi (soprattutto sui mutui immobiliari). Ma visto che ancora oggi il rendimento del Treasury a 10 anni flirta con quota 3% significa che le vendite sono proseguite anche ad agosto e in questi primi giorni di settembre, così come gli acquisti per offsetting della Fed, immagino.
Quindi, se davvero Obama attaccherà la Siria, cosa faranno Cina e Russia con quel debito? Non c’è il rischio che lo vendano a qualsiasi prezzo, pur di costringere la Fed a sfasciare il proprio stato patrimoniale e mandare in frantumi la presunta ripresa Usa garantita da tassi a zero, umiliando oltretutto l’inquilino della Casa Bianca? Forse Putin, quando parlava di sostegno alla Siria in caso di attacco non si riferiva solo a portaerei schierate e carichi d’armi. C’è poi un’altra questione, ovvero il fatto che al netto di quanto dichiarato interessatamente dal leader turco Erdogan, dal G20 non è affatto uscita una coalizione coesa contro Assad mentre altri paesi dei cosiddetti Brics si sono detti contrari all’intervento. Stando a dati del Tesoro Usa, sono 5,6 i triliardi di debito statunitense in mano a investitori stranieri, tra cui spiccano Cina, Giappone, Russia ma anche paesi produttori di petrolio e paesi emergenti. Cosa succederebbe se questi detentori di debito Usa smettessero di acquistarne e, anzi, scaricassero anche una parte di quello che già detengono? Solo quest’anno, il governo Usa dovrà prendere in prestito sui mercati 4 triliardi di dollari, di cui circa 1 in nuove emissioni e circa 3 in roll-over sul debito esistente: se Cina e Russia utilizzassero l’opzione obbligazionaria per attaccare l’America i rendimenti dei Treasuries salirebbero repentinamente, soprattutto il benchmark decennale, già oggi ai massimi da due anni.
Una tale ipotesi porterebbe con sé l’aumento dei costi del finanziamento per il governo federale, oltre che per governi statali e locali, perdite miliardarie per chi detiene bonds il cui valore calerà in contemporanea con l’aumento dei rendimenti, aumento spaventoso dei tassi di mutui, visto che già la scorsa settimana quello medio trentennale era al 4,57%, un conseguente e ulteriore rallentamento dell’attività economica a causa dell’aumento dei tassi che andrà a incidere negativamente anche sul mercato azionario, fino all’ipotesi più remota ma più catastrofica. Ovvero, l’esplosione della bomba a orologeria rappresentata dai 441 triliardi di dollari di derivati sui tassi d’interesse su cui sta seduto il sistema finanziario, con il rischio che un aumento repentino mandi a zampe all’aria in stile Lehman qualche altro colosso.
Anche perché, come confermato da Brent Schutte, market strategist alla BMO Private bank, il livello del 3% per il Treasury a 10 anni potrebbe essere solo l’inizio: «Un mark al 4% per fine anno, inizio del prossimo, è un buon livello sul termine temporale intermedio. Ma se devo guardare più a lungo termine, non mi sento di escludere affatto un 6-7% per il decennale». Sapete cosa vorrebbe dire tassi a quei livelli per un Paese indebitato, esposto alla leva e finanziarizzato come gli Usa? Nelle guerre moderne non servono missili e portaerei, bastano buoni traders. E l’arma del ricatto economico. Sarà un caso, ma ieri il più bellicoso dei belligeranti, il segretario di Stato Usa, John Kerry, ha detto che Assad potrà evitare l’attacco, se consegnerà le armi chimiche…