Riccardo Franco Levi, dalle pagine de Il Corriere della Sera, aveva elogiato Esselunga, decantandone in particolare le lodi che la accomunano ad altre due aziende italiane, Armani, e Luxottica. Levi si era detto convinto che il comun denominatore delle tre imprese consiste nell’essere guidate da imprenditori carismatici e indiscussi punti di riferimento per il personale, nel continuare a generare lauti profitti, e nell’essere rimaste tra le poche a presidiare la nostra economia. Insomma, pochi esempi, ma buoni, di campioni nazionali, solidi e in continua crescita. Il patron di Esselunga, Bernardo Caprotti, ringrazia. Ma, sempre dalle pagine del quotidiano di Via Solferino, ci tiene a precisare una serie di questioni. A differenza delle succitate aziende, anzitutto, la sua catena alimentare non ha attività fuori dai confini nazionali. Può definirsi, al limite, una «multiprovinciale» che, tuttavia, «neppure riesce ad insediarsi a Genova o a Modena, per non dire di Roma ove io poco, ma i nostri urbanisti si sono recati forse 2.000 volte in dodici anni». E che dire, poi, dell’italianità dell’azienda? Esselunga, probabilmente, è l’unica che è italiana al 100%. Da cui, ne discendono una serie di gravose conseguenze: tasse al 60%, una pubblica amministrazione dalla quale doversi difendere, una disciplina del lavoro che ti impone chi assumere. Ma questo è ancora niente. Caprotti lo aveva scritto un libro, “Falce e carrello”, e torna a ribadirlo: la politica, ma non solo, gli ha impedito di crescere ed espandersi realmente. Norme insensate, burocrazie impazzite, divieti, controlli, limiti e discipline che cambiano al mutare dei potenti e dei funzionari, hanno affondato la sua azienda. In tutto ciò, la causa e l’effetto coincidono e riproducono all’infinito questo stato di cose: «i due più grandi gruppi nazionale» del settore «sono politici». Ecco, allora, che «per realizzare un punto vendita» a Caprotti servono «mediamente da otto a quattordici anni. Ma per Legnano ventiquattro; mentre a Firenze forse apriremo l’anno prossimo un Esselunga di là d’Arno, una iniziativa partita nel 1970!». La lettera dell’imprenditore al direttore Ferruccio De Bortoli non si può certo derubricare a semplice sfogo, dato che le implicazioni delle circostanze denunciate danneggiano tutto il Paese. Caprotti, infatti, fa presente che se il nostro fosse rimasto libero e normale – e se la maggior parte delle aziende non fosse sovvenzionata dalle tasse delle poche che non lo sono – «saremmo potuti andare chissà dove». Peccato, conclude il capo di Esselunga, perché nel dopoguerra, imprenditori straordinari che realizzarono imprese e costruirono aziende straordinarie, ce ne furono, eccome.