Ammetto di essere un inguaribile ingenuo, ma non mi capacito del clima da normalità che ha accompagnato lo scorso fine settimana la notizia riguardo la definizione del piano di ristrutturazione di Monte dei Paschi. Prima silenzio pressoché totale, poi cronaca degne di una sala autoptica. Eppure, quanto deciso nel corso del vertice tra il Commissario europeo alla concorrenza, Joaquin Almunia, e il nostro ministro del Tesoro, Fabrizio Saccomanni, nei fatti sancisce la quasi certa nazionalizzazione dell’istituto senese. Il conto per il salvataggio del Montepaschi sarà infatti più salato del previsto, visto che sul piatto c’è un aumento di capitale da 2,5 miliardi di euro, ovvero 500 milioni in più delle previsioni e nei fatti lo stesso valore attuale dell’istituto in Borsa. Insomma, un aumento di capitale pari al market cap: nemmeno Superman, in queste condizioni di mercato. Nella nota del ministero delle Finanze viene precisato che l’aumento servirà ad anticipare il rimborso degli aiuti di Stato, i cosiddetti Monti bond, ricevuti dall’istituto per oltre 4 miliardi di euro. Come tempistiche, il Tesoro conferma quanto anticipato in conferenza stampa da Almunia: due mesi per dare il via libera al piano di salvataggio e tutto il 2014 come finestra per varare l’aumento di capitale. Nel caso in cui il tandem Alessandro Profumo e Fabrizio Viola dovesse fallire nella ricerca di uno o più compratori della banca, allora Mps sarà nazionalizzata.



Con tutto il rispetto per i due bravissimi manager, ripeto che la missione è praticamente impossibile. Anche perché più di qualcosa non quadra in questa vicenda. Una domanda, ad esempio: perché al solo scopo di rispettare le ratio, si costringe Mps a prendere i Monti Bond – che gli analisti non computano come capitale e che costano centinaia di milioni di euro all’anno – per poi obbligarla a un aumento di capitale così pesante? Delle due l’una, mi viene da pensare: o c’è una strategia, se non altro quella di guadagnare tempo sperando che la situazione svolti, o c’è una grande improvvisazione. «Ambedue linee di intervento strategico assai sofisticate…», chiosava tra l’ironico e il rassegnato un primario operatore del settore bancario cui ho posto retoricamente la domanda. Eppure da ridere c’è ben poco. Nel 2014, lo Stato si ritroverà proprietario del 72% di Mps, quindi sarà l’azionista di riferimento, il proprietario dell’istituto.



A quali costi, però? Il piano in elaborazione a Siena prevederebbe da subito ulteriori tagli agli sportelli, dopo i 400 già chiusi, e al personale, oltre che una riduzione graduale dei 29 miliardi di euro di Btp a bilancio (3 miliardi acquistati solo nel secondo trimestre di quest’anno). Al netto di una quota azionaria di mercato del 57,4%, con la Fondazione al 33,4%, Alberto Aleotti al 4%, Unicoop Firenze al 2,7% e Axa al 2,5%, Mps resta una preda ambita – essendo il terzo gruppo italiano e la banca più antica del mondo -, ma gli appetiti reali hanno bisogno di una bella cura dimagrante prima di essere scatenati. E se in Italia ci si è limitati a riportare la notizia senza troppi clamori, salvo qualche articolo allarmato per il -9% inanellato dal titolo lunedì e martedì, altrove l’attenzione è alta. Molto alta. «Non esiste una sola possibilità al mondo che possa raccogliere quella cifra in dodici mesi. Stanno facendo rotta verso la nazionalizzazione», ha detto chiaro e tondo alla Reuters un banchiere d’investimento coperto da anonimato. Insomma, con ogni probabilità sarà lo Stato italiano a dover fornire alla banca l’equity necessaria.



C’è però un problemino, ovvero le regole europee per gli aiuti di Stato che si applicano in caso di bail-in sul debito subordinato. Peccato che quest’ultima categoria sia minima nella struttura di capitale dell’istituto: in caso di opzione “cipriota”, chi subirà l’haircut necessario? Si sentono i regolatori europei e il ministero delle Finanze di escludere che siano detentori di bond senior, azionisti e correntisti a pagare parte del conto dell’operazione? Anche perché in Europa cominciano a moltiplicarsi i cosiddetti “template”, i modelli di ristrutturazione diciamo alternativi che hanno visto il loro esordio proprio con in bail-in di Cipro. La Polonia, ad esempio. Non è nell’eurozona, ma è parte integrante dell’Europa, basti vedere il bilancio commerciale e il dato di interscambio e in quel Paese è successo qualcosa di a dire poco incredibile: lo Stato ha deciso, manu militari, di confiscare di fatto metà degli assets dei fondi pensione privati (molti dei quali di proprietà di gruppi esteri come Allianz, Axa, Ing, Aviva, ma anche le nostre Generali), senza offrire alcun tipo di compensazione. Nei fatti, una nazionalizzazione forzata del 50% degli assets dei fondi pensioni primari del Paese.

Il governo ha definito l’operazione, «una revisione del settore pensionistico». In Polonia c’è infatti un sistema ibrido, formato dal veicolo previdenziale statale Zus e i fondi privati, conosciuti e denominati collettivamente con il nome di Ofe, i cui portafogli sono composti per circa la metà di obbligazioni e per il resto di azioni. Bene, mercoledì scorso il primo ministro, Donald Tusk, ha dichiarato che i fondi privati all’interno del sistema pensionistico con garanzia statale vedranno le loro detenzioni obbligazionarie trasferite al sistema pubblico, mentre potranno – bontà sua – mantenere il pacchetto azionario. Ma perché si è fatta una scelta simile? Semplice, troppo debito. Spostando gli assets obbligazionari privati nello Zus, il governo può contabilizzarli nel suo bilancio e compiere un’operazione di offsetting sul debito pubblico, permettendo così al ministero delle Finanze di emettere debito e fare spesa. Insomma, il governo ha troppo debito per emetterne altro, quindi sequestra e contabilizza assets non suoi nel bilancio, abbassa la ratio debito/Pil e via che si emette!

Ora, capite da soli che oltre a colpire i portafogli del fondi privati un’operazione simile sarà devastante per gli inflows di capitali, visto che nessuno vuole investire, quando sa che il governo, dalla sera alla mattina, può confiscare gli assets di quelle aziende finanziarie. Nei fatti, un’operazione cipriota più in grande stile: invece di confiscare i conti correnti sopra i 100mila euro per pagare la ricapitalizzazione delle banche, si confiscano gli assets dei fondi pensione per abbassare la ratio del debito. Insomma, nessuna operazione sarà più straordinaria in questa Europa che va incontro alla ripresa: le armi non convenzionali diventano quotidiane, sintomo che tutto questo scoppio di salute nel vecchio continente non c’è. E calcolate che la Polonia cresce e parecchio, è un’economia giovane e dinamica, senza l’euro e con una ratio debito/Pil appena del 52%: cosa sanno, quindi, i polacchi che noi non sappiamo per dar vita a un’operazione simile, senza precedenti, ma destinata a creare un precedente, dalla sera alla mattina? Saperlo.

In compenso sappiamo che la Grecia non avrà bisogno di un altro salvataggio, ma forse di due. Non lo dico io, lo ha confermato ieri il membro del council della Bce e presidente della Banca centrale belga, Luc Coene, a detta del quale «dobbiamo dar vita a degli sforzi ulteriori, certamente uno ma forse due altri pacchetti di salvataggio». Perché? «Perché la Grecia sta conoscendo miglioramenti economici molto lenti, anche se i problemi di debito della nazione non pongono più una minaccia immediata per l’edificio dell’eurozona nel suo insieme». Sarà, resta il fatto che nell’arco di meno di un mese si è passati dalla non necessità di un nuovo pacchetto di aiuti alla conferma dello stesso da parte niente meno che di Wolfgang Schauble fino alla duplicazione dei piani di intervento: se non è una minaccia questa non so quale lo sia. Magari lo scopriremo a fine mese, quando la troika andrà ad Atene per verificare i progressi compiuti dall’azione di governo. Vista l’accoglienza che gli eurodeputati ieri hanno riservato al discorso del presidente José Manuel Barroso, tutto incentrato sulla ripresa e la fine della crisi, cominciamo a essere in tanti a non vedere la luce alla fine del tunnel.

Nel frattempo, occhi e orecchie aperte: se la nostra curva del debito dovesse conoscere inversioni con quello spagnolo anche sulle scadenze a breve termine, l’instabilità politica unita alle convinzioni di convenienza dei mercati potrebbe giocarci dei brutti scherzi dal punto di vista dei conti pubblici e della stabilità del sistema bancario. Oggi si torna a emettere debito sui mercati, vedremo quale sarà la reazione, al netto dell’intervento del Quirinale che ha evitato deliranti epiloghi nel lavoro della giunta per le autorizzazioni del Senato l’altra notte. Stiamo scherzando con il fuoco e sappiamo tutti quali siano i rischi che si corrono.