Le banche italiane hanno bisogno di 5 miliardi di euro per il loro salvataggio. Nel lungo elenco degli istituti di credito in crisi non c’è soltanto il Montepaschi di Siena ma anche la Carige, la Banca Marche, la Popolare di Spoleto, la Tercas e la Popolare di Milano. Una situazione complicata, e a renderla ancora più difficile arriva uno schiaffo da Londra, dove il gruppo inglese Lch ha deciso di spezzare i legami con la Cassa di compensazione in Italia e di non garantire più i nostri istituti di credito, una manovra che potrebbe complicare l’accesso al finanziamento internazionale. Ilsussidiario.net ha intervistato Fabio Picciolini, presidente della Consumers Forum ed ex dirigente della Banca d’Italia.
Ritiene che le banche italiane ottengano condizioni più sfavorevoli rispetto agli altri istituti di credito europei?
Sicuramente sì, nonostante il loro comportamento durante la crisi e le stesse perdite nel periodo 2012-2013 che sono state meno pesanti di quanto è successo in diversi altri paesi, a partire dagli Stati Uniti e dal caso della Royal Bank of Scotland. Il trattamento di sfavore nei confronti del nostro Paese si spiega innanzitutto con il fatto che le nostre sono banche piccole, a parte le eccezioni di Unicredit e Intesa Sanpaolo. Non sono dunque apprezzate come meritano, perché non riescono a stare sul mercato in modo pressante e non sono tra quelle “too big to fall”, cioè troppo grandi per fallire.
Esistono differenze tra le regole italiane nei confronti delle banche e quelle presenti negli altri paesi?
In Italia le regole imposte dalla Banca d’Italia sono più severe rispetto ad altri paesi. Le casse di risparmio italiane da un punto di vista normativo sono considerate banche a tutti gli effetti, con capitale ormai diluito nell’aspetto privato. Le Landesbank tedesche al contrario sono “protette”, un po’ come avviene in Spagna, con le conseguenze per il sistema del credito che tutti conosciamo.
Ma le regole per le banche non dovrebbero inserirsi in una cornice europea?
L’Autorità Bancaria Europea (Eba) presieduta da Andrea Enria ha posto dei requisiti che sono stati pienamente rispettati dalle banche italiane, a differenza di quelle di altri paesi. Ciò ha fatto sì che i nostri istituti di credito si siano trovati in una situazione di scarsa capitalizzazione. Gli istituti di credito spagnoli e la Royal Bank of Scotland hanno ottenuto quei finanziamenti che sono stati negati all’Italia. Eccezion fatta per il Monte Paschi, complessivamente le banche italiane attraverso i Tremonti bond hanno ottenuto poco più di 10 miliardi in quattro anni.
Per rimettere i conti delle banche in ordine non si potrebbero chiedere dei fondi europei come ha fatto la Spagna?
Questa è una domanda che andrebbe girata al nostro governo. Abbiamo visto che cosa è avvenuto al Monte Paschi per 4 miliardi, di cui 2 sono rinnovabili. La volontà di rendere nuovamente pubbliche le banche italiane non esiste più dal 1993. Personalmente anch’io sono convinto del fatto che gli istituti di credito debbano essere capaci di reggersi in modo autonomo. Le banche buone devono quindi restare, le altre si devono fondere. Faccio notare che in Italia da un punto di vista normativo non esiste neanche il fallimento per le banche, e quindi non c’è neppure il timore che un determinato istituto di credito chiuda. Sicuramente la conseguenza è che lo si fonde con uno più grande. La nostra normativa prevede inoltre la tutela sui depositi personali dei consumatori fino a 100mila euro.
Che cosa si può fare invece per risolvere il problema delle dimensioni delle banche?
Il problema è anche che diverse banche di credito cooperativo hanno ormai più di 50 sportelli. Queste non sono più banche locali, dovrebbero quindi compiere il salto di qualità nella categoria superiore. Allo stesso tempo ci sono casse di risparmio molto piccole e che andrebbero fuse per consentire alla capogruppo di diventare una banca grande, offrendo migliori servizi, realizzando economie di scala, avendo una capacità di aumentare la clientela sul territorio e consolidando una presenza internazionale.
(Pietro Vernizzi)