Era nell’aria, era nei numeri e alla fine è arrivato. Dopo il debutto in Borsa di Facebook nel 2012, ora è la volta di un altro social network, Twitter, il sito di microblogging più famoso del mondo che ha presentato i documenti alla Sec, l’autorità borsistica statunitense, per l’offerta pubblica iniziale. Ovviamente, la compagnia non poteva che annunciarlo con un tweet: «Abbiamo presentato in via confidenziale il documento S-1 alla Sec per l’Ipo. Questo tweet non costituisce un’offerta per eventuali titoli in vendita». Altro non si sa, se non che gli analisti stimano per Twitter un valore di 10 miliardi di dollari e che del collocamento si occuperà Goldman Sachs, garanzia assoluta di “pump and dump”. Anche perché Twitter gioca a carte molto coperte questa sua Ipo. Negli Stati Uniti, infatti, le aziende che registrano meno di un miliardo di dollari di ricavi all’anno possono presentare alla Sec la documentazione per l’Ipo in modo confidenziale, grazie al Jobs Act (Jumpstart Our Business Startups Act) varato dal presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, nel 2012. Questo consente di mantenere segreti i dettagli finanziari dell’operazione per tre settimane dal momento della presentazione della richiesta di collocamento, non esattamente una politica di trasparenza ma in tempi come questi sarebbe parso strano il contrario.



Nato nel marzo del 2006, Twitter pare destinato a un successo già scritto, nonostante i ben poco lusinghieri precedenti di sbarco a Wall Street di altri social network o aziende a essi collegati: non è infatti facile capire le potenzialità del modello di business di questi colossi della connessione globale e resta un’incognita la loro capacità di sviluppo, oltre che il tasso massimo di espansione e acquisizione di nuovi utenti, soprattutto in mercati sterminati ma molto restrittivi sulle comunicazioni, come la Cina. Resta poi l’enorme dubbio che le quotazioni folli che vengono assegnate a queste aziende, ricordiamo i 100 miliardi di valutazione di Facebook, non siano legate al prodotto in sé, ma al valore occulto che esso offre ad agenzie di intelligence, aziende di marketing e data providing: insomma, sono i dettagli sulle nostre vite che questi social network carpiscono e immagazzinano a renderli così appetibili, non il fatto di poter scrivere ciò che ci salta per la testa e farlo leggere ad amici e followers.



Lo scorso gennaio Twitter fu valutata 9 miliardi di dollari, quando BlackRock acquistò i titoli dai dipendenti della società, ovvero un miliardo in più rispetto all’investimento di Dts Global nel 2011. Con oltre 300 milioni di utenti registrati, di cui oltre 200 milioni di utenti attivi al mese e 400 milioni di tweet al giorno, Twitter ha sì rivoluzionato il linguaggio e il modo di comunicare, tramutando il famoso cancelletto, #, in un qualcosa di globalmente immancabile – tanto che anche Facebook ha dovuto correre ai ripari in tal senso – ma come si possa ulteriormente rafforzare la sua forza di penetrazione, rimane un mistero. Jack Dorsey, il fondatore di Twitter, ha lanciato il primo tweet il 21 marzo 2006 e da allora oltre 170 miliardi di tweet sono stati inviati, secondo i dati di Dashburst: l’utente medio ha 208 followers e trascorre in media 170 minuti al mese sul sito, ma in molti temono che nel medio periodo anche Twitter subirà la sindrome di de-logging che ha già colpito Facebook, ovvero utenti stanchi del servizio e che, semplicemente, lo abbandonano.



Non è un caso che la presentazione della documentazione da parte di Twitter sia arrivata pochi giorni dopo la maggiore acquisizione realizzata dall’azienda, quella di MoPub, società per la pubblicità mobile, un’operazione il cui prezzo non è stato comunicato, ma che valuterebbe MoPub 300-400 milioni di dollari. E che soprattutto spiana la strada, per la prima volta, a un’espansione di Twitter al di là del proprio sito, poiché la società appena acquisita continuerà a offrire servizi ad altri siti: insomma, gli stessi gestori di Twitter hanno capito che l’effetto novità e l’ubriacatura da ashtag ha ormai il fiato corto, soprattutto se si vuole continuare a macinare profitti e non si vuole tramutare il collocamento in Borsa in un mezzo flop, se non in un vero e proprio buco nell’acqua, come successo in altri casi. In effetti, a godere del collocamento rischiano di essere chi già detiene titoli grazie al trading da investimento privato o i dipendenti attraverso le stock options, un mercato sotterraneo ma molto attivo che di fatto ha già spostato l’asticella della valutazione di Twitter verso l’alto, a quota 16 miliardi di dollari.

E proprio il disastroso esordio borsistico di Facebook potrebbe far propendere per un profilo basso in sede di Ipo, poiché è meglio arrivare al fatidico giorno paradossalmente sottodimensionati ed entrare subito in rally, che combattere per mesi non in vista di guadagni ma per non perdere il valore nominale di collocamento. Come ho già detto, sono parecchi i precedenti che invitano alla calma, mentre altri fanno sfregare le mani. Google, ad esempio, collocata nel 2004 e capace di racimolare nell’Ipo 1,7 miliardi di dollari, cifra che portò la valutazione dell’azienda a 27 miliardi di dollari. In pochi giorni, circa 1000 dipendenti di Google si scoprirono milionari, mentre i fondatori addirittura miliardari grazie all’Ipo, nonostante un crollo dell’ultimo minuto del prezzo di collocamento e un’intervista di sette pagine su Playboy pubblicata poco prima dell’offerta pubblica che rischiò di far saltare il collocamento. In meno di dieci anni, il titolo è passato da 85 dollari per azione a 893 dollari, garantendo a Google un market cap di 297,5 miliardi di dollari.

Destino un po’ diverso quello toccato a Facebook, valutata circa 100 miliardi di dollari prima dell’Ipo ma con il prezzo del titolo sceso del 50% nei tre mesi seguiti al collocamento nel maggio dello scorso anno. Il primo giorno di contrattazioni, poi, fu un vero incubo: una serie di guai tecnici, costrinsero i sottoscrittori a entrare in azione e comprare titoli affinché il prezzo non scendesse sotto il livello di collocamento di 38 dollari per azione. Un aumento dei ricavi generato dal settore mobile ha poi fatto in modo che il titolo si stabilizzasse e questo mese sia salito per la prima volta dall’Ipo sopra quota 45 dollari: il bicchiere mezzo vuoto, però, per chi ha comprato al picco, è che ad oggi è solo andato in pari con l’investimento.

Legata a Facebook è poi Zynga, l’azienda che ha inventato Farmville, la quale ha raccolto 1 miliardo di dollari nell’Ipo, emettendo 100 milioni di titoli a 10 dollari per azione, portando la valutazione del gruppo a 7 miliardi di dollari. Ma se la febbre per i giochi per smartphone è sempre in crescita, in calo sono invece le quotazioni di Zynga, che si è vista rubare clienti dal concorrente più acerrimo, quel king.com che può contare su Candy Crash e Bubble Witch. Lo scorso giugno, Zynga ha annunciato il taglio di 520 posti di lavoro per risparmiare oltre 80 milioni di dollari: il titolo è crollato, trattato oggi a 3,10 dollari per azione dal massimo di 14,69.

Poco confortante anche il precedente di Groupon, che nel 2011 diede vita all’Ipo più grande dai tempi di Google: le azioni offerte salirono da 5 a 35 milioni, portando il totale raccolto a 700 milioni di dollari. Da allora, il titolo ha perso il 55%, risultato che all’inizio di quest’anno è costato il posto ad Andrew Mason, co-fondatore e ad del sito. Valutata all’epoca 13 miliardi di dollari, ora Groupon si ferma a 7,8 miliardi. Sempre nel 2011 anche il collocamento di Linkedin, con le azioni prezzate a 45 dollari e il capitale raccolto a quota 352 milioni di dollari. Nel primo giorno di contrattazioni, il titolo salì di oltre il 100% e due anni dopo l’azienda ha visto quadruplicato il suo valore. C’è da ricordare che Linkedin si collocò in migliori condizioni di mercato di molti concorrenti, ma il risultato parla da solo.

Che dire, se non in bocca al lupo a Twitter. Una sola cosa mi fa pensare, visto il timing del collocamento: il “taper” della Fed è ancora lontano, altrimenti non si rischia la ghirba al Nasdaq in questa maniera.