In un’intervista al Financial Times l’ad di Fiat Sergio Marchionne ha dichiarato che Chrysler intende presentare la domanda di ammissione alla quotazione in borsa e che i documenti per l’Ipo potrebbero essere già pronti questa settimana. La decisione segue il mancato accordo tra Fiat e Veba sulla quota di proprietà del fondo. Nell’intervista Marchionne assicura inoltre che l’Alfa Romeo non sarà prodotta fuori dall’Italia, almeno fino a quando sarà lui alla guida del Lingotto. Sullo stabilimento di Mirafiori, dove è in programma la produzione di un Suv Maserati, Marchionne ha affermato che il piano prevede che tutti gli occupati vengano riassorbiti. Ilsussidiario.net ha chiesto un commento al giornalista economico Ugo Bertone.



Siamo di fronte all’ennesima inversione a U” di Marchionne?

L’inversione gliela fanno fare gli eventi. Marchionne sembra incoerente, ma la sua “incoerenza” è dettata dalla situazione del mercato. Le cose sono cambiate ed è costretto a zigzagare. Ha preso atto che negli Stati Uniti la situazione non è quella che desiderava. A questo punto è necessario un piano B. Che, un po’ per le sue caratteristiche, un po’ per necessità di cose, è del tipo “o la va o la spacca”.



Perché?

Obiettivamente, il tempo non lavora per Fiat in questo momento. Se non riesce a chiudere l’operazione con Chrysler – e direi che non riesce a chiuderla secondo le ultime notizie – rischia uno stop impressionante. Visto che le posizioni tra lui e il fondo Veba sono inconciliabili, e visto che Veba si richiama a una valutazione di mercato, la speranza è trovare una soluzione intermedia.

Dire che l’Alfa non sarà prodotta fuori dall’Italia, dopo aver sostenuto che da noi non ci sono le condizioni per produrre, non è una contraddizione?

Credo che a Marchionne interessi innanzitutto il braccio di ferro per il controllo di Chrysler. Da lì discende tutto il resto.



In che senso?

A Marchionne interessa una strategia in cui la Fiat diventa parte di un gruppo più grande. All’interno del quale pensa di poter scaricare la forza di marchi come Alfa. Il motivo è molto semplice e assieme drammatico.

Quale?

L’Alfa, dentro i confini della Fiat vale relativamente poco. Perché la Fiat non ha i mezzi, la rete, la forza, il marchio, l’immagine, il futuro e l’organizzazione per andare da sola a vendere decentemente l’Alfa sui mercati di tutto il mondo.

Cosa potrebbe fare in alternativa?

Delle operazioncine. Se invece entra in una struttura mondiale, ma mondiale per davvero, allora il discorso cambia. In Cina, per esempio, hanno provato a entrare diverse volte, ma sono stati tutti flop.

Perché?

Non avevano la forza. Adesso se ci entrano con la Jeep, che è un marchio importante, fatto apposta per un certo tipo di mercato, che in Cina può trovare buona accoglienza, allora possono pensare anche all’Alfa, e creare una rete a fianco. È lo stesso motivo per cui, magari usando una battuta infelice, in passato aveva detto: “La Lancia fuori dall’Italia è morta”. Voleva dire che si possono fare le macchine più belle dell’universo, ma se devi partire da zero a costruire un marchio, una storia, un’immagine, una rete, e non hai una valanga di quattrini – che non hai – e i tuoi avversari sono tutti più forti, allora non ce la fai.

 

Questo concetto Marchionne lo ripete ormai da tempo.

Da almeno nove anni ripete che ci vogliono certe dimensioni per avere in prospettiva un ruolo globale. Il nodo centrale di tutta la sua straregia è creare un grande gruppo. Se non si crea questo grande gruppo, si farà qualcosa su basi più limitate, con qualcun altro. È il senso di quello che sta accadendo un po’ a tutta l’industria italiana.

 

Cosa sta accadendo?

Si deve accontentare di una nicchia, di un mercato limitato, di un segmento. In questo caso forse non parliamo neanche più di automobili.

 

Ma?

Di un segmento del lusso. Mi permetto di fare Ferrari, sviluppo la Maserati anche con una certa consistenza e a quel punto mi dedico a fare un po’ di pret a porter, come Armani Jeans, con l’Alfa. Questa però non è più la strategia di un grande produttore mondiale che cerca le condizioni migliori per imporre la propria tecnologia, il proprio brand, la propria filosofia producendo con pari qualità in tutto il mondo. È piuttosto la strategia di un brand del lusso dove conta il made in Italy. Le faccio un esempio.

 

Prego.

Mettiamo che produca tailleur di Valentino. È un guaio se, per risparmiare 50 euro su un abito che ne costa 3mila, vado a produrlo in Vietnam. Lo stesso può valere per Maserati, Ferrari o un’Alfa che per farsi riconoscere a livello mondiale deve essere prodotta secondo certe caratteristiche. Diverso se voglio pormi – se posso pormi – come produttore mondiale che fabbrica 6 milioni di vetture. È il caso di Fiat. Volkswagen la producono dove vogliono, non credo facciano lo stesso con Porsche. Di sicuro non producono Lamborghini fuori dall’Italia. A certi livelli conta molto quel meccanismo.

 

Marchionne ha parlato con il Financial Times. Avrebbe detto altre cose alla Stampa o al Corriere?

A Marchionne non interessa l’Italia, un posto dove non si venderà un’automobile fino al 2018, 2019. E solo il 10-15% di Ferrari, forse anche meno visto che quelli che possono permettersela hanno paura delle tasse. La sua partita Marchionne se la gioca a livello mondiale. Ha parlato con il Financial Times perché gli interessava mandare un segnale importante a Chrysler. Di recente l’ad di Fiat ha fatto anche un’altra operazione.

 

Quale?

Quella di non presentarsi a Francoforte, dove tutto sommato non avrebbe fatto una bella figura. Tutti avevano decine di nuovi prodotti e un fortissimo impegno sulla motorizzazione verde. La Fiat solo un paio di restyling. In più ha la Ghibli e qualcosa di Maserati che ha fatto vedere a Torino, ma sono state letteralmente sommerse.

 

Marchionne non è interessato all’Italia?

Le dispute italiane credo siano all’80° posto delle sue preoccupazioni. Se non all’81°. L’altro giorno, invece, a Parigi, sono state presentate tre idee di politica economica del governo a cura di McKinsey. Una riguardava lo sviluppo della Peugeot che consumerà 2 litri per fare 100 chilometri. Questi progetti sono fortemente sostenuti in una cornice di interventi di politica economica nazionale. Allora sì ha senso occuparsi di quello che dice il governo, le parti sociali, ecc. Ma da noi non c’è modo. E uno per sopravvivere deve occuparsi d’altro.