Ieri le Borse europee sono volate sui massimi da cinque anni a questa parte, euforiche fin dal primo mattino, con il Dax di Francoforte che addirittura sfondava la quota da record assoluto di 8600 punti. Motivo? La disoccupazione sta calando? Il comparto manifatturiero riparte? La produzione industriale torna in positivo? Le case automobilistiche finalmente ritrovano il segno più rispetto a produzione e vendite? La Grecia migliora e non avrà bisogno di un altro piano di aiuti? No. A rendere possibile l’ennesima giornata di festa sui mercati azionari ci ha pensato una notizia: il ritiro dalla corsa per la presidenza della Fed di Larry Summers, considerato più falco dell’attuale vice, Janet Yellen, ora la favorita alla successione di Ben Bernanke. Quindi, i mercati ora scontano tempi più lunghi per il rientro delle misure ultra-espansive adottate dall’istituto centrale Usa per ridare slancio all’economia: insomma, altri soldi stampati dal niente con cui inondare i mercati e comprare di tutto, dai titoli azionari ai bond ad alto rischio, gli stessi che due anni fa pagavano il 13,5% di rendimento e oggi solo il 5%, visto che li si acquista con il badile, dimenticando l’alto livello di rischio che è insito nella loro natura.



Oggi, poi, torna a riunirsi la Fed e gli operatori si aspettano novità su entrambi i fronti: presidenza e “taper”. Tanto che alcuni si attendono l’ennesimo giochino delle interpretazioni e l’ennesima fuga di notizie, propedeutica magari a una sell-off che farebbe la gioia di chi a Wall Street ha troppa carta in mano e vuole monetizzare. Basta una falsa aspettativa o l’ennesimo rumor, poi prontamente smentito, e questo mercato così solido e basato sui fondamentali va giù come un castello di carte. Salvo risalire una volta che giunga la conferma che il diluvio di soldi della Fed non sta per finire. Nel frattempo, si festeggia come se l’economia reale che sottende quella finanziaria non fosse in recessione ormai da quattro anni e più.



Per alcuni, poi, altre due notizie hanno reso possibile il balzo: la prima, l’accordo internazionale per distruggere le armi chimiche della Siria che ha allontanato la minaccia di un attacco, con Assad che ha già dislocato gli arsenali in almeno cinquanta siti, tanto per rendere impossibile un controllo reale. Quindi, una farsa. La seconda, la vittoria della Csu, gli alleati di Angela Merkel, nelle elezioni in Baviera, dove hanno riconquistato la maggioranza assoluta persa nel 2008, garantendo alla Cancelliera la forza dei conservatori nella regione, a una settimana dal voto politico del 22 settembre. Anche qui, nulla che non fosse già contemplato nei sondaggi. Peccato che i principali alleati della Cancelliera a Berlino, ovvero i Liberali, non abbiano superato la soglia di sbarramento e siano quindi fuori dal parlamento del Lander. Se trasposto in chiave nazionale, non un bel dato: o la Cdu sbaraglia la concorrenza e vince in maniera tanto netta da non necessitare alleanze, molto difficile, oppure potrebbe affacciarsi l’ipotesi di una Grosse Koalition con l’Spd. Non esattamente l’esito favorito dai mercati.



C’è poi l’Italia, dove ieri si è aperta una settimana particolarmente critica per la delicata tenuta del governo delle larghe intese, con oggetto del contendere sempre la decadenza di Silvio Berlusconi, atto cui si dovrebbe giungere mercoledì sera con il voto in Giunta al Senato. Anche qui, certezze poche, visto che nonostante la determinazione a parole del Pd, il voto segreto potrebbe aprire le porte a scenari stile-Prodi, quando l’ex premier fu impallinato da oltre 100 franchi tiratori sulla strada verso il Quirinale. Oppure Berlusconi potrebbe dimettersi prima del voto, evitando scontri e tensioni e magari incassando la ricompensa della grazia. Una cosa è certa, dopo la fiammata di venerdì, ieri lo spread è sceso sotto quota 260 punti base.

Anche qui, mistero, visto che le novità riguardanti la Fed e il voto bavarese hanno compresso e parecchio i differenziali dei decennali statunitensi e tedeschi, con il Bund che prevedeva uno yield dell’1,92%, da oltre il 2% di venerdì. Chi sta comprando il nostro debito, sostenendolo? Ma soprattutto, chi lo ha venduto in maniera quantomeno sospetta venerdì scorso a dieci minuti dalla chiusura delle contrattazioni, portando lo spread a 267 punti base e dando vita a un’impennata simile, sia per noi che per la Spagna?

Nelle sale trading, ovviamente, gli spifferi si sono diffusi subito: una primaria istituzione europea, una intercontinentale, una banca italiana molto esposta al nostro debito che deve cominciare a scaricare. Conferme, ovviamente, zero: certo, sicuramente è qualcuno parecchio esposto sul mercato obbligazionario sovrano periferico, visto che ha innescato dinamiche esattamente identiche sia sui nostri titoli di Stato che su quelli iberici. Nelle sale trading spiegano invece la cosa in altro modo, ovvero legano la sell-off a questa news, apparsa sui terminali alle 17.46 di venerdì scorso, ma circolata col passaparola già prima: “Cassa Compensazione e Garanzia, pronto regolamento che prevede limitata copertura in caso di default LCH Clearnet – fonti”. Cosa sia la Cassa di Compensazione e Garanzia (CC&G) è presto detto. Si tratta di una società per azioni del gruppo Borsa Italiana che funge da sistema di garanzia come controparte centrale per i mercati azionari e dei derivati italiani gestiti da Borsa Italiana, nonché per i mercati gestiti da MTS e BrokerTec, per quanto riguarda i soli titoli di Stato italiani. Ossia chi partecipa a un mercato regolamentato può (nel caso dei mercati di Borsa Italia, deve) associarsi a CC&G che si assume il rischio di insolvenza della controparte, diventando essa stessa la controparte nel contratto. Ovvero, la voce di un nuovo regolamento che preveda limitata copertura in caso di default, ha fatto scaricare debito italiano e spagnolo come se non ci fosse un domani, questo per confermare come quei titoli siano tutto tranne che legati a situazioni macro e strutturali solide dei paesi che li emettono.

Resta però il fatto che un’operazione simile comporti rischi, ma abbia anche un effetto psicologico assicurato: primo, scatena la curiosità del mercato su chi ha venduto e perché. Secondo, ti lascia tutto il weekend a rosolare con lo spread ai massimi da settimane, nell’attesa di capire cosa accadrà il lunedì seguente. Ancora una volta, non si è trattato di un attacco speculativo, forse solo di un segnale per tastare il grado di resistenza. O forse, un avvertimento. O, forse ancora, una mossa con forte valenza più politica che finanziaria, ovvero un bel promemoria a chi di dovere del fatto che l’instabilità politica può tramutarsi in fretta nella famosa palla di neve che scivolando lungo la montagna, diviene valanga.

Perché al di là di tutto, la situazione generale dell’Europa non è quella rispecchiata dai mercati azionari. Anzi. Lo ha confermato il presidente della Bce, Mario Draghi, in persona, quando ha confermato che i tassi di interesse della zona euro non saranno incrementati, «rimarranno sui livelli attuali o inferiori per un esteso periodo di tempo». Parlando a Berlino a una conferenza sul ruolo dell’impresa familiare nell’economia europea, organizzata dalle organizzazioni imprenditoriali di Francia, Spagna, Germania Italia, Olanda e Austria, ha tuttavia sottolineato che i paesi di Eurolandia dovranno rafforzare la crescita, l’occupazione e la competitività, poiché la ripresa economica dell’area è solo in una fase iniziale. «Sono stati fatti progressi per la stabilizzazione della zona euro ma serve far di più», ha dichiarato il numero uno della Bce, a detta del quale «il miglioramento della situazione sui mercati finanziari non si è ancora trasferito verso una ripresa economica ad ampio raggio. L’economia rimane fragile e la disoccupazione è ancora troppo alta».

Per Draghi, poi, il programma di acquisto bond sul mercato secondario ideato dalla Bce ha aiutato a ristabilire il normale funzionamento dei mercati e a rimuovere l’incertezza che stava paralizzando alcuni mercati. Vero, ma quel programma, di fatto, operativamente e legalmente, non esiste ancora: è solo uno spauracchio, è una minaccia vuota, poiché a essa non possono seguire i fatti. O, almeno, non immediatamente e automaticamente: e i mercati, se azzannano, non aspettano che tu sia pronto a difenderti, conoscendo poi i tempi dell’Ue. Se domenica la Merkel dovesse portare a casa altri cinque anni di Cancellierato, poi, pensate che ridiscutere anche solo l’idea dell’Omt non sarà una delle sue priorità, spalleggiata dal fido Schaeuble? Al netto anche delle rivelazioni di Bini Smaghi nel suo libro, rispetto la pericolosità oggettiva delle liabilities di Bundesbank verso le Banche centrali periferiche nel sistema Target2.

Prepariamoci a una settimana di notizie e reazioni tutt’altro che razionali: in qualche modo, il mercato deve riequilibrarsi un po’, non può macinare massimi senza colmare qualche gap, al netto dell’assenza di crescita e ripresa reali che giustifichino quei rialzi. E temo che si sceglierà la via sicura e rapida delle sell-off da panico. Che siano vere o false flag, poco importa. Al mercato.

P.S.: Non c’entra con l’Europa, ma trovo questo tema interessante e destinato a non abbandonarci tanto in fretta. Ricordate il default della città di Detroit lo scorso mese di luglio? Bene, l’effetto domino di quell’avvenimento comincia a concretizzarsi, andando a colpire altre entità e soprattutto molti investitori, anche istituzionali. A far paura al mercato obbligazionario ora è Puerto Rico con i suoi bond municipali, i cui rendimenti cominciano a preoccupare, visto che stanno toccando livelli mai raggiunti nemmeno nei momenti di crisi più nera.

 

 

Alcune delle obbligazioni a 27 anni del Paese vengono trattate a 67 centesimi sul dollaro, pagando un rendimento del 10,082%, mentre i bond emessi più di recente della Electric Power con scadenza 2036 sono letteralmente collassati nel prezzo, trattati a 82 centesimi sul dollaro. Insomma, l’avversione al rischio sui bond municipali innescata dal default di Detroit comincia a colpire gli anelli più deboli della catena e dà vita a violenti outflows dagli Etf, tanto che oggi come oggi i bonds di Puerto Rico sono trattati a livelli più bassi di quelli della stessa Detroit. Direte voi, che impatto può avere una cosa simile su un mercato vasto come quello obbligazionario? Limitato, certo, ma i muni-bonds di Puerto Rico sono estremamente diffusi tra gli investitori internazionali, tanto che il 77% dei mutual funds Usa li ha in portafoglio, stando a dati diffusi da Morningstar.

Il perché è presto detto: garantendo un rendimento mediamente alto, a differenza di altri bonds municipali gli interessi su quelli di Puerto Rico sono esentati da tasse federali, statali e locali. Il debito di Puerto Rico è quello che sta performando peggio nel sub-settore tracciato da S&P Dow Jones Indices, preparandosi a conoscere il suo anno peggiore in assoluto dal 1999 se non invertirà la rotta. Dall’inizio dell’anno, l’indice S&P Municipal Bond Puerto Rico ha perso il 17%, contro il -5,9% registrato dal mercato muni-bonds in generale, tracciato dall’AMT-Free Municipal Bond Index. A questi livelli, per quanto Puerto Rico sarà in grado di finanziarsi sul mercato prima di vedere i propri conti andare fuori controllo? Se lo chiede Dan Solender, direttore del dipartimento muni-bonds della Lord Abbett: «Il costo potrebbe essere davvero alto, visto che continuano gli outflows e cresce l’avversione al rischio». Avanti così, che andiamo bene.