No, la Ferrari no. Olli Rehn ci risparmi le turbo-metafore da Grand Prix, tipo “per poter vincere bisogna avere un motore competitivo”. L’ex calciatore finlandese diventato Commissario europeo per gli affari economici e monetari forse voleva apparire simpatico ieri, nel corso dell’audizione alla Camera dei deputati, ma ha dato subito l’idea che l’Italia resta sorvegliata speciale. La crescita non c’è, quindi è presto per parlare di uscita dalla crisi; il sentiero che porta al pareggio strutturale del bilancio pubblico è stato imboccato, ma scelte come l’abolizione dell’Imu sulla prima casa minacciano di portare in un vicolo cieco.
Dalla procedura d’infrazione, insomma, non siamo usciti una volta per tutte. Anzi. L’incertezza politica, che Rehn considera il maggior fattore di rischio, rende il Paese fragile, instabile, ancora non pienamente affidabile. E poi via con la Formula Uno: “L’Italia è la terza economia per grandezza in Europa e il suo motore di crescita non può andare a basso regime, il motore ha bisogno di un’urgente revisione, non si può perdere tempo al pit stop, spero che l’Italia guidi con due mani sul volante e rimanga fermamente in pista”.
Non ci piace sentirci tirar gli orecchi in continuazione, ma siamo sinceri: possiamo dargli torto? La ripresa stenta e nello stesso tempo il debito pubblico continua a crescere. I due fenomeni, del resto, sono avvinti l’uno all’altro in un circolo vizioso: se il Pil non aumenta non si riduce il debito e viceversa. Sulla carta, esiste un’alternativa: che la spinta venga tutta dalla domanda privata. Ma i consumi ristagnano perché si pagano troppe tasse (è sempre quel maledetto debito che ci strangola); quanto agli investimenti, sono stati tagliati dalla crisi e prima di rimettersi in moto ci vorrà tempo, soprattutto occorre fiducia la quale a sua volta è una variabile dipendente dalla stabilità politica. Dunque, il circolo vizioso si ripropone anche dal lato dell’attività privata.
Rehn ha un’altra ricetta e l’ha ribadita ieri: le riforme strutturali. È la stessa che predica e impone la Germania. Lo ha spiegato Wolfang Schäuble, ministro delle finanze tedesco in un articolo sul Financial Times nel quale invita a non credere ai profeti di sventura: l’euro è salvo, sostiene, proprio grazie all’austerità. Se alcuni paesi non sono ancora fuori dal tunnel è perché non si sono riformati abbastanza, insomma non hanno fatto “la revisione del motore”, come dice Rehn. C’è una logica in tutto questo, sia chiaro. E nessuno può negare che dietro la crisi dei debiti sovrani si trovi anche l’uso scriteriato dello stato assistenziale.
Le Figaro ha pubblicato non senza sarcasmo la notizia che a Zacinto 700 greci avevano ritrovato la vista dopo l’arrivo delle ispezioni sulle pensioni di invalidità. In Italia miracoli del genere capitano ogni giorno, ma potrebbero essercene molti di più. Ciò vale anche per l’evasione fiscale. Non ha senso che il reddito spendibile sia in media attorno ai 20 mila euro l’anno e la spesa delle famiglie sia superiore di un terzo. Ora, è vero che si può consumare il patrimonio per salvare il tenore di vita, ma a un ritmo del genere la ricchezza dell’Italia sarebbe già distrutta; certo non potrebbe risultare sette-otto volte superiore al prodotto lordo e maggiore di quella tedesca. Quanto alla Spagna, come fa a vivere con una disoccupazione al 27%, superiore persino a quella degli Stati Uniti negli anni ‘30, senza tanto lavoro nero e assistenzialismo più o meno legale?
Quando si parla, dunque, di divergenze all’interno dell’Eurolandia, bisogna considerare anche tutti questi fattori per così dire atipici. Uno studio di tre economisti della Banca d’Italia sulla reazione dei diversi paesi agli stimoli monetari prima e dopo l’euro, mostra che l’Italia si muove in modo asimmetrico nei consumi e nell’occupazione. Entrambi sono rigidi: i consumi cadono più lentamente quando c’è la stretta, l’occupazione stenta a muoversi verso l’alto quando c’è la ripresa. È la conseguenza di resistenze sociali ed economiche che rendono l’Italia un Paese vischioso, meno permeabile al cambiamento. E qui la colpa non è dell’euro. Ciò mette sul banco degli imputati il mercato del lavoro. La riforma vera è tutta da fare, Monti e Letta hanno ceduto alle pressioni corporative dei sindacati e della Confindustria che si mettono insieme per chiedere al governo senza dare nulla di sostanzioso. Un patto conservatore che rappresenta la zavorra più pesante e pericolosa.
Dove Rehn entra in contraddizione è sulla politica fiscale. Non si possono fare riforme incisive (quindi dolorose) senza accompagnarle con un aumento della domanda, non solo per attutire l’impatto sociale, ma per evitare che peggiorino la recessione nel breve periodo (visto che i miglioramenti si vedranno solo dopo tre anni). Lo ha spiegato ampiamente il Fondo monetario internazionale, esistono fior di studi del capo economista Olivier Blanchard, e poi, se non bastasse la dottrina, c’è sempre il buon senso. È stato detto mille volte, ma bisogna sempre ricordarlo: la riforma del mercato del lavoro in Germania è stata fatta nel 2003 mentre il governo sfondava per tre anni il limite del 3% al disavanzo pubblico.
Il ministro Schäuble potrebbe replicare che nel 2010 i lavoratori dei grandi gruppi tedeschi hanno accettato di ridurre il salario e aumentare l’orario, pur di salvare il posto di lavoro. Ma la riforma era già in opera da almeno cinque anni e il mercato più flessibile consente di cogliere meglio la ripresa e ridurre il tasso di disoccupazione. Non va sottovalutato, sia chiaro, l’impatto del taglio nelle retribuzioni. I socialdemocratici accusano la Merkel di aver affamato gli operai (quasi la metà delle buste paga oggi è inferiore alla base contrattuale); dal punto di vista economico, questa deflazione salariale è stata l’equivalente di una svalutazione che ha dato ulteriore impulso alla ripresa. In fondo in fondo, è quello che chiede Rehn all’Italia: più flessibilità in uscita e riduzione del costo del lavoro.
Sul secondo punto Letta si è impegnato promettendo un taglio al cuneo fiscale (in sostanza una nuova fiscalizzazione degli oneri sociali). L’operazione è discutibile, perché ricade solo e sempre sul bilancio pubblico. Vedremo se sarà sufficiente, se sarà efficace (quello di Prodi nel 2007 non ha funzionato) e se ci sono abbastanza risorse. Sulla flessibilità, invece, il governo fa finta di non sentire. Le micro-misure approvate a giugno non hanno grande impatto e, soprattutto, vanno in direzione opposta. Il ministro Giovannini parla di “flessibilità buona”. Può darsi. Il rischio è che la ripresina non migliori affatto il tasso di disoccupazione.
La stabilità politica è un bene, per tornare all’audizione di Rehn. Ma non se significa immobilismo. L’Ue non può sottrarsi alla sua responsabilità di accompagnare le riforme e dare una mano ai paesi che le portano avanti. La rigidità sul deficit pubblico (nonostante l’Italia abbia un consistente attivo primario), minacciando nuove punizioni, è una frustata non un aiuto. E non va ignorato che la montagna del debito pubblico non è stata creata ieri. C’è un livello storico, quello prima dell’euro, che andrebbe separato dal resto e sul quale si può agire in modo straordinario.
Su questo, il governo Letta potrebbe aprire una discussione a Roma e a Bruxelles. Prima, naturalmente, deve presentare una legge di stabilità seria e credibile che non contenga solo piccoli aggiustamenti, ma riforme, compresa quella del lavoro.