A torto o a ragione, settembre è considerato come il mese del “risveglio europeo” dopo il lungo letargo estivo a cui l’eurocrazia si sarebbe abituata da tempi immemori, un letargo interrotto da qualche (spesso estemporanea) dichiarazione di questo o quel Commissario Europeo. Di norma a settembre, le istituzioni europee – specialmente quelle economiche e finanziarie – devono cercare di giungere a posizioni comuni all’assemblea annuale della Banca mondiale e del Fondo monetario che quest’anno ha luogo a Washington all’inizio di ottobre. Raramente, questi tentativi hanno successo: spesso gli stessi Paesi dell’eurozona prendono linee differenti, ove non necessariamente divergenti, all’assemblea delle due maggiori istituzioni finanziarie internazionali.
Quest’anno l’esigenza di un coordinamento è più forte del solito per due motivi: a) in un mondo che cresce a tassi sostenuti (tra il 2,5% ed il 3% l’anno a seconda del modello economico utilizzato) l’Europa appare come una provincia addormentata che sta faticando molto per uscire da una lunga recessione –e di essere, quindi, una palla di piombo della crescita internazionale non il suo motore; b) in seno all’Unione Europea (UE) e più particolarmente all’eurozona, all’inizio dell’estate era stato “rimandato a settembre” un delicatissimo “unfinished business”: la messa a punto di quell’unione bancaria senza la quale l’intero disegno dell’unione monetaria potrebbe essere travolto da una catena di crisi bancarie. Inoltre, questo autunno le istituzioni europee dovrebbero, per la prima volta, valutare provvedimenti nazionali come la legge di stabilità ed il programma nazionale di riforme anche prima che vengano formalizzati dai Governi degli Stati dell’UE ossia durante la loro elaborazione.
Veniamo al secondo punto, poiché non vale la pena soffermarsi sul primo non solo a ragione dell’esperienza del passato ma anche perché i maggiori “azionisti” dell’UE non stanno certo dando prova di coordinamento di fronte alla crisi siriana – e ciò non agevola la convergenza in altre aree. Quando il Consiglio Europeo di giugno ha concluso i lavori, il programma era che uno dei due pilastri dell’unione bancaria (la vigilanza) sarebbe stato definitivamente finalizzato in settembre e che si sarebbe proceduto speditamente sugli altri due (l’armonizzazione delle garanzie per i depositi in conto corrente e, il più difficile, la “risoluzione” di eventuali crisi bancarie di grandi dimensioni). I tempi sono non stretti ma strettissimi perché il Parlamento Europeo (al cui vaglio devono passare i regolamenti) chiude i battenti in aprile 2014, in vista delle elezioni in maggio.
Da un lato, anche a livello tecnico (non solo a quello politico) ci sono differenze profonde sul primo pilastro e si è molto distanti dagli altri due. Da un altro, anche se i sondaggi affermano che dalle elezioni politiche tedesche in calendario il 22 settembre non dovrebbero uscire mutamenti di rilievo, è oggettivamente difficile forzare il passo pur se solo sul primo pilastro dell’unione bancaria in attesa di sapere come sarà composto il Bundestag e quale sarà la struttura del Governo della Repubblica Federale. Altri due Stati dell’UE hanno elezioni politiche tra settembre ed ottobre: Austria e Lussemburgo. Le fragili maggioranze in Grecia e Portogallo potrebbero portare alle urne anche là. E l’Italia? Dopo le ultime dichiarazioni di Silvio Berlusconi, a Bruxelles si contano i giorni del Governo Letta e nessuno scommette su un forte e duraturo Letta-bis. Nessuno, quindi, pare in grado di prendere difficili decisioni in tema di unione bancaria. Ed ancor meno ad assumere impegni per una posizione comune all’assemblea del Fondo monetario e della Banca mondiale specialmente in temi di cosa per la crescita del continente che pare , oltre che vecchio, stanco. La strada è tutta in salita e piena di trabocchetti.