Abbiamo scherzato. La permanenza nel tetto del 3% del rapporto deficit/Pil non è durata neanche il tempo di smaltire l’entusiasmo. Il governo, come ha rilevato Enrico Letta in conferenza stampa, al termine del Consiglio dei ministri, ha rivisto in negativo le stime del Pil per il 2013, fissandolo al -1,7%. Contestualmente, il rapporto deficit/Pil salirà al 3,1%. «L’interruzione della discesa dei tassi e la ripresa dell’instabilità politica pesa sui conti e per questo non siamo stati in grado di grado di scrivere oggi 3%», ha spiegato il premier, mentre dal centrodestra giungeva una minaccia: se per mantenere gli impegni con l’Europa si aumenta l’Iva, salta il governo. Abbiamo fatto il punto sulla situazione con il giornalista economico Oscar Giannino.



Perché le stime prevedono di nuovo uno sforamento?

Siamo alle solite. Siamo un Paese in cui la politica e i governi che si succedono hanno sottoscritto, negli anni, delle regole ma non si sono mai messi nelle condizioni di rispettarle. Quanto accade non è un sorpresa o una maledizione dell’euro: si tratta del frutto di un comportamento complessivo che si è protratto negli anni.



Un governo forte e autorevole cosa avrebbe dovuto fare?

Ridurre seriamente la spesa pubblica. Non solo per ridurre il deficit, ma anche per trovare le coperture per abbassare le tasse sul lavoro e sulle imprese. Non avendolo fatto, ogni volta che incombono delle scadenze, ci si rende conto del fatto che la coperta è corta.

Nell’imputare all’instabilità politica la colpa dello sforamento c’è del vero?

Indubbiamente, l’instabilità ha un peso enorme rispetto al giudizio che i mercati danno sul rischio del debito sovrano. Cosa ben diversa è l’operatività dei governi.

Il Pd rinfaccia al Pdl di averne paralizzato l’azione impuntandosi con l’abolizione dell’Imu.



È vero. Ma era la condizione di partenza delle larghe intese. A maggior ragione, per trovare le risorse per rilanciare la crescita, il governo avrebbe dovuto fare e tagliare di più.

Sin qui lei ha descritto delle colpe “omissive”. Ci sono delle responsabilità “attive” in tutto ciò?

Se guardiamo al bilancio degli ultimi 12 anni di euro e a quello ventennale della Seconda Repubblica, i saldi di finanza pubblica (sempre all’inseguimento della spesa) sono sempre stati garantiti con l’aumento delle tasse. Non c’è dubbio, inoltre, che Monti abbia inferto particolarmente, con quasi 20 miliardi di euro di tasse in più. È pur vero che ha tagliato 12 miliardi di spesa. Se anche gli altri governi precedenti avessero prodotto una tale contrazione della spesa primaria, oggi non saremmo in queste condizioni. È chiaro, quindi, che le tasse siano il nostro primo problema.

Perché Saccomanni, invece, continua a parlare di crescita («nel 2014, +1%»)?

Nelle sue convinzioni di “tecnico” pesano alcuni fattori: negli ultimi 2-3 mesi si è rafforzata, sulla base di indicatori quali l’Indice di acquisto dei manager (Pmi), un’atmosfera di maggior fiducia. Si tratta di un elemento che gli econometristi tendono a esternare ed enfatizzare, per contribuire a loro volta a determinare un riflesso positivo sull’economia reale. Inoltre, prima dei dati negativi dell’ultimo mese, i numeri dell’export italiano inducevano a prevedere un andamento del Pil leggermente superiore alle aspettative. Infine, le parole del ministro nascono dalla volontà di creare un clima di fiducia, considerando che, effettivamente, negli ultimi anni si è determinato un calo dei consumi superiore e non del tutto proporzionale al calo dei redditi.

 

Cosa dobbiamo attenderci dall’Europa? Nuova austerity?

Temo  che si percorrerà, ancora una volta, la strada più semplice, quella dell’aumento delle tasse. Sono ragionevolmente altrettanto sicuro che continuerà a crescere, a livello popolare, e nella comunicazione pubblica, l’ondata antieuropea di chi pensa che sia meglio uscire dall’euro per sottrarci allo sfruttamento dei tedeschi.

 

E non è così?

In termini concreti, sarebbe molto meglio metterci in condizione di arrivare al semestre di presidenza europea con delle proposte serie, in modo da modificare la governance, le regole e i criteri dell’Europa. Introducendo, cioè, accanto al rapporto deficit/Pil, dei parametri che contemplino – per esempio – la bilancia dei pagamenti o l’esposizione debitoria verso l’estero. 

 

(Paolo Nessi)