Egregio Ministro Lupi,

Le scrivo questa lettera aperta in merito alla ormai lunghissima problematica di Alitalia che, come responsabile dei Trasporti, la vede in prima linea. Confesso che in parte non vorrei essere nei suoi panni, dato che tutta la faccenda ha il sentore di trasformarsi nell’ennesima debacle del nostro Paese in campo economico, sconfitta che rischia di seguire quella che purtroppo sta subendo la telefonia italiana con la cessione del controllo di Telecom agli spagnoli di Telefonica, società dotata di un passivo doppio rispetto a quello dell’italiana, ma con un governo forte nel sistema Paese. E questo proprio mentre il nostro Primo ministro sta compiendo un giro d’orizzonte in Nord America per cercare di rilanciare la nostra economia….



A differenza di altre nazioni, la nostra si è sempre contraddistinta per una curiosa propensione all’harakiri con una politica altamente irresponsabile dotata di un masochismo ai limiti del surreale, che proprio nel trasporto aereo ha raggiunto dei limiti sublimi. Come non ricordare infatti il 1998, quando proprio un’Alitalia in attivo, guidata da un manager che vi era entrato coi calzoni corti e un Presidente ingegnere aeronautico (fatto quasi illogico nella nostra mentalità politico-industriale) stava per trasformarsi, con l’intelligente fusione con l’olandese Klm, nella più grande compagnia aerea europea, con due hub altamente strategici, Roma e Malpensa. Proprio l’apertura dello scalo varesino segnò l’inizio del crollo di Alitalia: la politica non solo si adoperò intensamente in infuocati conflitti campanilistici più consoni al Basso Medioevo che non agli albori del terzo millennio, ma addirittura non mosse un dito quando l’Ue, oltre a bloccare il trasferimento degli slot da Linate a Malpensa, decise che il prestito chiesto da Alitalia allo Stato a condizioni bancarie estremamente più dure di quelle concesse da Francia e Spagna quasi nello stesso periodo ai loro rispettivi vettori “di bandiera” non era da inquadrarsi come un’operazione finanziaria (sarebbe servita per uniformare la flotta di lungo raggio a quella olandese mediante l’acquisto di Boeing 747 di ultima generazione, essendo i nostri ormai decisamente vetusti), bensì come un “aiuto di Stato” e quindi passibile di sanzioni durissime, quali l’impossibilità di acquisire nuovi aerei, di praticare le tariffe più vantaggiose e di aprire nuovi scali. L’apertura di Malpensa da riscossa si trasformò nel de profundis.



Una situazione che si sarebbe potuto evitare se solo una politica fino a quel momento scellerata (e pure dopo, purtroppo) avesse fatto quadrato e si fosse opposta. Invece, l’unico a contrastare questo diktat dettato dalle lobby di Bruxelles fu l’allora Amministratore delegato, Domenico Cempella, che citò l’Unione alla corte dell’Aia e vinse dopo tre anni di processi con una sentenza che obbligava l’Ue a risarcire con 900 milioni di euro Alitalia per i danni subiti: soldi che mi risulta non siano mai arrivati.

Davvero un bell’esempio di Sistema-Paese, non le pare? I dieci anni successivi trascorsero con un’aerolinea sempre in bilico sul baratro, fino ad arrivare al fatidico “salvataggio” del 2008, dopo la fallita privatizzazione proposta da Air France che avrebbe sborsato ben 5 miliardi di euro, oltretutto con un piano che mirava a rinforzare il settore del lungo raggio, quello dove si operano da anni i ricavi dei principali vettori. Un’operazione, come ben ricorderà, lardellata di patriottismo di stampo risorgimentale con il fatidico gruppo di patrioti industriali pronti a far risorgere i destini dell’Italia nei cieli. E capitanata proprio dal fondatore del suo partito.



Chissà se Garibaldi, Mazzini, Cavour e Vittorio Emanuele II hanno tentato di forzare i robusti e pesantissimi sarcofaghi in cui giacevano, visto che i nuovi padroni non avevano curriculum proprio degni dell’Inno di Mameli, ma tant’è, nell’ubriacatura mediatica di quel periodo che individuava i colpevoli del disastro nei dipendenti fannulloni e privilegiati della compagnia si era trovato l’italico capro espiatorio. Peccato però che i numeri dicessero il contrario, che il costo del lavoro in Alitalia fosse il più basso in assoluto, inferiore alla media europea, mentre invece le spese per l’organizzazione della compagnia costassero ben il 94% dei ricavi, contro la media europea del 63%.

A leggere queste cifre, peraltro in possesso di gran parte della stampa ma mai pubblicate, il solo Piero Ostellino ebbe a esprimere dubbi su tutta l’operazione, definendola in un articolo pubblicato su Il Corriere della Sera “la più grande porcata tra potere politico e imprenditoriale del dopoguerra”. Di irregolarità, per così dire “tecniche”, tutta la manovra ne ebbe, al punto da meritarsi una condanna da parte dell’Unione europea con una sentenza del giugno del 2009 (anche questa ben celata dalla stampa) dove il Governo italiano è stato condannato a pagare multe salatissime. Ma dove l’arte dell’harakiri raggiunge il culmine è nella cura proposta dal nuovo staff per rilanciare Alitalia, che in pratica licenzia circa 10.000 lavoratori tra i più anziani ed esperti (in un campo dove il know-how fa la differenza è un autogol di per sé già notevole) e punta alla resurrezione in un piano denominato “Fenice”, che in pratica cambia ben poco mantenendo Alitalia nell’eterno limbo dimensionale di una compagnia troppo piccola per essere un vettore globale e troppo grande per uno regionale e strutturando la flotta principalmente sul medio e corto raggio, pensando che basti far scendere il costo del lavoro per battere le low cost o mettersi sotto l’ombrello del monopolio delle rotte nazionali imposto dallo Stato per fare ricavi, dimenticandosi dei treni ad alta velocità.

Siamo ormai alla vigilia dell’ennesimo disastro economico provocato da scelte a dir poco irrazionali che, oltre ad aver dato origine al più grande licenziamento di massa della storia della Repubblica, sta privando l’economia italiana del controllo di uno degli asset più importanti, quello del trasporto aereo. Credo sia inutile ricordarle come Air France, una volta in possesso di Alitalia, la ridurrà a semplice vettore regionale e controllerà le leve di un trasporto che è essenziale per il progresso economico di una nazione: basti pensare alle ricadute su di un altro settore importantissimo, quello del turismo. Inutile illudersi del contrario, a meno che…

A meno che la politica si accorga che svendere il Paese come ha fin qui fatto, per difendere interessi di banche o di supposti industriali che ben poco hanno a che vedere con quelli della nostra nazione, è un boomerang che alla fine si ritorcerà sulle sue innumerevoli colpe e, per una volta tanto, faccia gli interessi dell’Italia intera. Come? Non certo allungando il cassonetto della Cigs come finora lei ha proposto, né tanto meno paventando l’entrata in un’alleanza come Air France-Klm dalla porta di servizio come una vittoria, ma puntando i piedi come hanno fatto anni addietro e continuano a fare altre nazioni in difesa dei loro interessi come Paese e finalmente (ma sarà proprio impossibile) utilizzando risorse che dimostrino competenza nel settore (ne abbiamo avute e ne abbiamo a dismisura) per elaborare una strategia che possa permetterci di sopravvivere sviluppandoci invece che ridurci. Anni fa proprio un manager italiano, Michele Levi, salvò la compagnia israeliana El-Al da un disastro molto simile a quello di Alitalia e nel giro di due anni, senza licenziare nessuno, seppe portarla a dei record di ricavi mai registrati prima. Ed era pure Console onorario d’Italia a Tel Aviv.

Siamo un Paese che gode di una posizione invidiabile al centro del Bacino del Mediterraneo e contemporaneamente dell’Europa, possediamo dei flussi migratori che potremo riconquistare facilmente, siamo ancora una potenza turistica: tutti fattori che posseduti anche singolarmente farebbero la fortuna di un vettore aereo. Chissà perché Air France tutt’un tratto dal disinteresse più totale è passata alla fretta di chiudere il tutto per un piatto di lenticchie. Non sarà per caso che l’araba Etihad, entrando con una quota minoritaria ma anche con una cinquantina di opzioni su aeromobili di lungo raggio potrebbe trasformare Alitalia in un competitor di prim’ordine da attuale fedele vassallo?

Un’inversione forte di tendenza è più che auspicabile, doverosa, altrimenti ci ridurremmo a fare da baristi negli aeroporti, al servizio di nazioni più intelligenti. Anni fa il regista Moretti creò uno slogan per D’Alema: “Dì qualcosa di sinistra!”. Ecco, io lo modificherei un poco e lo estenderei a tutto l’arco politico che cinque anni fa creò il miracolo di buttare dalla finestra persone e miliardi per creare l’esatto clone di un fallimento. Si tranquillizzi, sappiamo benissimo tutti che questo evento fu possibile grazie anche all’enorme contributo del Pd e dell’arco sindacale. Chiudo quindi questa mia con un’esortazione: “Fateci vedere qualcosa PER l’Italia!”.