Dunque, abbiamo appreso che Franco Bernabé, numero uno di Telecom, ha scoperto della cessione dell’azienda agli spagnoli di Telefonica dai lanci di agenzia e dai quotidiani. Bene, mi sento rassicurato di avere persone di tale spessore a capo di una delle più grandi utility del Paese. Ora, delle due l’una: o Bernabé dice la verità e c’è davvero da mettersi le mani nei capelli, oppure mente sapendo di mentire, visto che uno che ha frequentato gli ultimi cinque, sei meeting del Bilderberg difficilmente non si rende conto che stanno scalando l’azienda che guida. C’è aria di resa dei conti: lo dimostra la durezza della reazione del Pdl alla vendita, la neutralità mercatista-europeista di Enrico Letta, l’imbarazzo malcelato del Pd.



E non potrebbe essere altrimenti, visto che Telecom prima di essere un’azienda nel campo delle comunicazioni è un coacervo di interessi, nascosti sotto la logica tutta italiana delle “partecipazioni”: Generali dovrebbe fare assicurazioni, occuparsi di polizze e non di telefonia. Lo stesso Intesa, che dovrebbe gestire risparmio ed erogare credito. Mediobanca no, è una banca d’affari ed è il suo lavoro tirare i fili del potere e dell’economia: visto l’ultimo risultato degli utili, non lo fa benissimo. Quanto successo era già scritto, lo si sapeva da anni: Telefonica, entrata in Telco nel 2007, non si sarebbe mai accontentata di fare il junior partner in un colosso che produceva più che altro debiti. Diverso è mangiarselo e sfruttarne a pieno e con pieni poteri le sue potenzialità.



E la cosa meravigliosa è che i soldi per pagare il primo aumento di capitale da 324 milioni che ha fatto salire Telefonica al 66% di Telco sono anche in parte nostri, fanno parte del novero degli 80 miliardi di nuovo debito pubblico creato quest’anno dal nostro Paese, 29 dei quali sono andati per finanziare il fondo salva-Stati che ha reso possibile la ricapitalizzazione delle banche spagnole, le stesse che stanno aiutando Telefonica nella sua scalata. Complimenti e poi ci facciamo anche dire dal tedesco di turno che noi dobbiamo qualcosa all’Europa, che noi prendiamo le ricchezze del Nord per tamponare le nostre miserie.



Telecom non è un problema industriale, è un problema di potere: a fine mese sarebbe scaduto il patto di sindacato, con la guerra delle banche già in atto – vedi le dichiarazioni di Alessandro Profumo – e quindi i cosiddetti salotti buoni del capitalismo italiano si sono trasformati in pizzicagnoli bravissimi a fare i conti della serva: o vendevano questa volta o sarebbero rimasti con il cerino il mano, con il rischio di venire scalati poco dopo per due lire e con perdite da contabilizzare a bilancio. Per mantenere italiana Telecom, se questo fosse stato l’interesse, bastavano 400 milioni: abbiamo speso 4 miliardi per mantenere italiana e artificialmente in vita Monte dei Paschi. E qui subentra l’altro scenario, ovvero il legame Italia-Spagna dietro le grandi manovre dei poteri forti. I protagonisti, più o meno, guarda caso sono gli stessi. Santander con il suo potentissimo capo Emilio Botin, Intesa Sanpaolo, Mediobanca, Generali. Non ci avete fatto caso?

Chi fu a rifilare quella colossale fregatura che passava sotto il nome di Recoletos a Rcs per la cifra folle di 1,1 miliardi di euro, quando il Washington Post – avete letto bene – è passato di mano per 129 milioni di dollari poco tempo fa? Santander. E chi c’è nel patto di sindacato di Rcs, oltre a Fiat? Generali, Mediobanca, Intesa Sanpaolo, oltre alla Pirelli di quel Tronchetti-Provera che Telecom la guidò prima dell’operazione Telco. Stesso protagonista per la questione Antonveneta: chi vendette a Mps a un prezzo più che raddoppiato l’istituto veneto? Santander. La quale, oltretutto, quando concluse l’affare con Mps (l’8 novembre 2007), in realtà non aveva ancora comprato Antonveneta e mai la comprò davvero, se non per qualche ora e senza versare nulla: non aveva pagato un centesimo, si era solo impegnata con Abn e cedette così a Rocca Salimbeni qualcosa che ancora non era suo. Un immenso scaricabarile. E guarda caso sempre Santander lo scorso 13 settembre, con un report, rilevava come apparisse improbabile che Telefonica rafforzasse la sua presenza in Telecom, perché avrebbe aumentato il carico del proprio debito. Per gli analisti della banca spagnola, più in generale, il rischio è che l’interesse di soggetti stranieri venga fermato dal governo, mentre l’unico modo per evitare una ricapitalizzazione è vendere Tim Brasil. Tredici giorni fa.

Poco più di un mese fa, invece, il duo Telefonica-Santander, con il terzo alleato Caixa Bank, ha ottenuto il via libera dall’Unione europea per la creazione di una joint venture per il commercio telematico, il cosiddetto e-commerce: per i regolatori di Bruxelles, «l’operazione non susciterebbe preoccupazioni per la competizione e la concorrenza». Insomma, dopo Visa e Vodafone e Mastercard e Deutsche Telekom, un nuovo soggetto «per sviluppare nuove opportunità di business basate sulle ultime tecnologie di comunicazione e del mondo mobile». Cioè un servizio di pagamento P2P e una community tra consumatori e retailers in grado di raggiungere soltanto in Spagna 600mila aziende, ma l’idea è quella di estendere a livello globale il nuovo servizio. Come abbiano fatto i tre cavalieri dell’operazione a ottenere il via libera delle autorità europee, trattandosi di una joint venture, in tempi così brevi appare un mezzo mistero, visto il precedente britannico di Vodafone, EE e O2, la cui unione per una nuova piattaforma denominata Weve ci mise tempi biblici a causa dell’opposizione dell’altro operatore, Tre. Inoltre, sia Santander che Telefonica stanno aggredendo in maniera sempre più decisa il mercato dell’America Latina, facilitati anche dal legame linguistico, tanto che il gigante del credito sta puntando tutto in quei Paesi per dimostrare a livello europeo che è capace di restare sul mercato nonostante la crisi nell’eurozona e il fatto che le banche spagnole abbiano beneficiato di aiuti dell’Ue. Loro, però, sanno difendere i loro interessi, sanno fare sistema, non litigano nei patti di sindacato, facilitando i concorrenti. Come valutare, alla luce di questo colossale conflitto d’interessi, il report di Santander su Telecom-Telefonica dello scorso 13 settembre?

Ora l’attenzione si sposta al 3 ottobre, giorno del cda di Telecom nel quale Bernabé, oltre a presentare un nuovo progetto industriale, dovrebbe anche chiedere un aumento di capitale dai 3 ai 5 miliardi, soprattutto per evitare il downgrade del rating che porterebbe le emissioni obbligazionarie della società a livello “junk”, ovvero spazzatura. L’aumento di capitale, in effetti, potrebbe svelare le reali intenzioni di Telefonica: i timori di molti è che, per ridurre il debito, Telefonica venderà tutti i pezzi pregiati di Telecom e, dunque, soprattutto il Brasile e l’Argentina, dove la società è già presente. E con il Brasile, che da solo vale intorno ai 7 miliardi di euro, Telefonica si ripagherebbe abbondantemente di tutta l’operazione. Ma con gli interessi congiunti di Telefonica-Santander in America Latina, converrà vendere i gioielli sudamericani? E se sì, per ripagare l’operazione, a chi?

La cessione appare obbligata, almeno sulla carta. Come previsto, Anatel, l’authority antitrust brasiliana, ha già comunicato che chiederà la cessione di Tim Participacoes da parte di Telecom Italia, nel caso in cui Telefonica salisse al 100% di Telco, la holding che controlla la compagnia italiana al 22,4%. Semplice il motivo, ricordato ieri dal ministro delle Comunicazioni di Brasilia, Paulo Bernardo: non sarà consentito che Telefonica sia a capo sia di Vivo che di Tim Brasil. Già, perché Telefonica Brasil – meglio nota come Vivo – è il primo operatore mobile in Brasile con una quota di mercato del 27,5%, mentre Tim Brasil è il secondo con una quota del 26,5%: chi sacrificheranno gli spagnoli, non potendo diventare monopolisti sul mercato carioca? Magari nessuno. O magari non tutto. Telefonica non può vendere Tim Brasil ad altri operatori, quindi l’ipotesi di spezzatino appare meno probabile, ma nelle ultime settimane si è parlato di divisione di Tim Brasil e di vendita agli altri gruppi del settore, ovvero Oi e Claro di America Movil.

In ballo c’è una fetta di interessi enormi a livello globale, oltre che la conquista di quella che appare la nuova frontiera del settore delle telecomunicazioni. Due degli ultimi movimenti tecnici segnalano le grandi aspettative che l’America Latina sta animando tra le aziende di telecom di tutto il mondo: America Movil sta collegando un cavo sottomarino che moltiplicherà di 50 volte l’attuale capacità di dati internazionale e il norvegese Appear TV sta per lanciare una nuova centralina di distribuzione via cavo per gli operatori. Il cavo di America Movil è collegato alla terra attraverso la città di Cartagena, in Colombia: l’infrastruttura è lunga 17.500 chilometri e connetterà sette paesi attraverso undici punti diversi nel Nord, Centro e Sud America. La società messicana pensa di iniziare a utilizzare il cavo nel 2014, dopo un investimento di quasi 200 milioni di dollari. Riguardo ad Appear TV, l’azienda si concentrerà sulle esigenze generate dalle transizioni di sistema digitale che è in corso nella maggior parte dei Paesi e la soluzione sarà commercializzata direttamente agli operatori televisivi: il fornitore di servizi di trasmissione introdurrà una centrale cavo che ha fatto il suo debutto al “ABTA 2013 Expo&Conference” proprio in Brasile lo scorso agosto.

Insomma, ciò che sembra sicuro è che l’operazione Telecom, consumatasi nell’arco di poche ore dopo mesi di tira e molla, appare un risiko geostrategico e operativo enorme. Da cui l’Italia è esclusa. Complimenti a tutti gli attori e comprimari per l’ennesima figuraccia e per l’enorme danno cui hanno esposto il Paese e il rischio per la sua sicurezza: come certificato ieri dal Copasir, non dal sottoscritto.