Gli stipendi, almeno stavolta, sono salvi. È il succo della riunione del cda di Alitalia che ha dato il via libera a un’iniezione di capitali per 100 milioni, ovvero un quinto delle necessità finanziarie così com’erano presentate nella relazione al resoconto, drammatico, dell’ultimo semestre: la compagnia di bandiera ha perso quasi 300 milioni di euro nella prima metà dell’anno, in forte peggioramento rispetto ai 201 di un anno fa. Non solo. Per scongiurare la crisi di liquidità, la relazione semestrale dice che se non entreranno in cassa con urgenza soldi freschi sarebbe a rischio il pagamento degli stipendi dei 14mila dipendenti. Di qui la richiesta di circa 500 milioni, di cui 200 di aumento di capitale e 300 di nuovi prestiti bancari, solo parzialmente soddisfatta. Per ora.



Se ne riparlerà in cda il prossimo 3 ottobre, quando forse si sarà definita la complessa partita tra partner italiani, governo e Air France, che, per il momento, versa 25 milioni in qualità di socio della compagnia. Oppure, in caso di fumata nera, si procederà a un finale drammatico, aperto a ogni soluzione: a metà ottobre scade il diritto di prelazione per la compagnia franco-olandese, ove non mancano i fieri oppositori all’operazione in terra italiana, Paese a bassa crescita ma ad alto tasso di litigiosità politica, sindacale e con uno straordinario, quasi unico, istinto all’autolesionismo: nessuno quanto voi italiens, fanno sapere da Parigi, ha aperto tante porte ai low cost. E nessuno quanto voi, aggiungono, ha consentito a Etihad ed Emirates di conquistare tanti spazi di mercato.



Tra poche settimane, insomma, si saprà il finale dell’ennesimo capitolo dell’affaire Alitalia. Magari con un epilogo a sorpresa perché, fa sapere il ministro Maurizio Lupi, “Air France è il primo azionista di Alitalia e quindi il naturale interlocutore, ma penso che ce ne possano essere altri”. Intanto un altro ministro, Flavio Zanonato, da Bruxelles fa sapere che l’esecutivo studia una “soluzione industriale”: l’Italia non può rinunciare a uno, anzi due hub. Splendide parole, che ricalcano alla lettera ciò che si è detto in occasioni precedenti. Lo nota, con la solita arguzia, Massimo Nicolazzi, manager del petrolio con grande talento per i tweet: “Soluzione ponte con banche”, e poi cercare “altri partner”.Sic dixit (2008) Berlusco; sic dicit (2013, oggi, agenzie) Zanonatus.



Non è il caso di irridere al povero ministro. Che altri poteva mai dire? O, forse, era meglio tacere, visti i precedenti. A proposito di scelte industriali, tanto per cominciare, l’Italia si dibatte da vent’anni sul tema del doppio hub. Era già evidente ai tempi di Romano Prodi, che da presidente di Nomisma aveva benedetto più studi per magnificare le potenzialità dell’hub padano, che l’Italia non aveva la forza per reggere due scali intercontinentali. Da allora Malpensa e Fiumicino si sono affrontati con ogni arma. Finché, dopo il salvataggio targato Banca Intesa, si decise di concentrare l’attività di Alitalia su un solo hub, Fiumicino.

Le conseguenze? La decadenza dello scalo lombardo, cui si è posto rimedio prima con l’alleanza con Lufthansa, che ha presto preso atto che l’hub di Malpensa non era redditizio, ma ha sfruttato la situazione per creare una rete di collegamenti assai efficiente tra l’Italia del Nord e gli hub tedeschi; poi si sono spalancate le porte a EasyJet, oltre che agli operatori del Golfo. Il tutto mentre sulla Sea si sono consumati pasticci non da poco, complicati, ciliegina sulla torta, con gli aiuti contestati a Sea Handling. Quindici anni dopo, insomma, il sistema degli aeroporti del Nord, nonostante le infinite promesse di razionalizzazione, è ancora in alto mare. Ora ci prova F2i di Vito Gamberale: forse ce la farà. Ma le resistenze non mancheranno di sicuro.

Non è andata molto meglio a Fiumicino. Il braccio di ferro sulle tariffe è stato estenuante, assolutamente incomprensibile per gli investitori internazionali che hanno provato a puntare sull’hub europeo. Prima gli australiani di Macquarie, sbalorditi di fronte a cda in cui si discuteva di terreni, licenze edilizie, conflitti tra soci ma non si perdeva un secondo a discutere di efficienza del servizio. Poi gli esponenti del fondo sovrano di Singapore, partner di Benetton. Anche loro, di fronte agli assurdi ritardi nel concedere il via libera ad aumenti necessari per giustificare un rifacimento di Fiumicino all’altezza delle ambizioni di Roma (e delle potenzialità del turismo italiano).

A proposito di Alitalia, poi, ci vorrebbe un volume per descrivere le bizzarrie dell’assorbimento di AirOne e le caratteristiche di un’operazione che, per quel che si legge, ha lasciato in eredità ad Alitalia velivoli che non hanno garantito, com’era stato ventilato, un rinnovo pieno della flotta. Ma un bel contenzioso legale che, bizzarria nelle bizzarrie, riguarda anche le pendenze del gruppo Toto antecedenti alla nascita della nuova Alitalia: non è difficile capire perché Air France ha molto da eccepire su questi debiti.

Insomma, siamo d’accordo con il ministro Zanonato: poco conta se il nuovo partner sarà francese, turco o russo. Ma chi garantisce noi cittadini italiani, compresi i minatori disoccupati del Sulcis, che abbiamo pagato alcuni miliardi il lusso di una compagnia di bandiera che le cose in futuro andranno in maniera diversa? Se gli azionisti italiani di Alitalia, nonostante i ponti d’oro a loro garantiti (niente debiti, marchio gratis, flotta rinnovata, la razionalizzazione dell’hub) sono riusciti a far cilecca, per quali ragioni oggi potrebbero fare meglio?

Per carità, Se qualcuno intende farsi avanti, si accomodi. Altrimenti, se si ripeterà il 3 ottobre la pietosa scena di soci (già abbondantemente finanziati a suo tempo dalle banche) che non se la sentono di rischiare pochi milioni procapite, si prenda atto che il famoso “sistema Paese” si è rivelato solo una gabbia per gli animal spirits imprenditoriali veri, italiani o meno. E quei pochi quattrini ancora in mano al sistema bancario usiamoli per finanziare quelle imprese e quegli artigiani che aspettano ancora i soldi dello Stato.