A volte le dichiarazioni inopportune, da parte di un politico, capitano. Nel senso che a volte capitano eventi che smentiscono immediatamente quanto si è appena dichiarato. Comunque sia, quanto capitato al ministro per lo Sviluppo Economico, Flavio Zanonato, è un caso esemplare di tempismo nel dire la cosa sbagliata. Dopo le indiscrezioni dei giorni precedenti sull’ipotesi che l’Italia superi il limite del 3% del rapporto tra deficit e Pil, ha affermato che tale soglia (che implica l’apertura di una procedura per infrazione) non verrà sorpassata; e subito, il giorno dopo, nel Def (il Documento di programmazione Economica e Finanziaria) è stato scritto nero su bianco che il rapporto tra deficit e Pil dell’Italia è al 3,1%. Vale poco dire che l’importante è tornare al 3% entro l’anno, e che il Ministro voleva dire proprio questo, cioè che entro l’anno saremo al massimo al 3%. L’effetto mediatico è stato questo: un giorno con i titoli dei giornali con le dichiarazioni di Zanonato: “Non supereremo il 3%” e il giorno dopo con i titoli sul Def: “L’Italia al 3,1%”.



Ora il problema, come con Monti e la Fornero, non sono le gaffe. Il problema vero sono i contenuti che esse nascondono. Cosa può cambiare, se il deficit è al 3,1% del Pil? Avremo una procedura di infrazione da Bruxelles, dovremo tirare un pochino la cinghia e torneremo al di sotto del limite del 3%, magari complice una ripresina (che nessuno vede). Il vero problema è che ci danno da bere che il rapporto tra deficit e Pil sia un indicatore sotto controllo, o controllabile. Il deficit potrebbe esserlo (ma non dimentichiamo che dipende pure dagli enti locali, oltre che dall’andamento dei mercati finanziari), ma il Pil no, in nessun caso. E se il Pil precipita per la fine dell’anno, allora saranno dolori, altro che storie.



Anzi, una storia che potrebbe far peggiorare la situazione già l’abbiamo: il fatidico aumento dell’Iva, che potrebbe scattare dal primo di ottobre. E la situazione ce la mostra bene la Curva di Laffer (riportata nel grafico a fondo pagina), che gli economisti conoscono molto bene, poiché indica il limite oltre il quale a un aumento delle tasse corrisponde una diminuzione delle entrate fiscali. La barra nera verticale rappresenta approssimativamente la situazione delle aziende italiane. Se si vogliono aumentare le entrate fiscali, è indispensabile diminuire la pressione fiscale. Ma a Bruxelles e alla Bce sembrano aver dimenticato le più elementari conoscenze di economia. E in Italia, tra quelli che decidono veramente, non si trova qualcuno che osi pensarla diversamente. Tocca pure a noi, tra i tanti che non contano, ricordare queste semplici verità.



Alcune di queste verità sono state pure esemplificate da un brillante articolo di Ugo Arrigo, il quale ha utilizzato il paragone con la situazione della Costa Concordia. Un paragone fin troppo abusato, di questi tempi, quasi a significare che, pur dopo un periodo di lunga attesa, alla fine si riesce a raddrizzare la nave Italia. Ma il paragone di Arrigo invece è interessante perché si pone su un piano completamente diverso. Proprio il paragone con il recupero della Costa Concordia è l’occasione per evidenziare le principali differenze tra quella e il presunto recupero dell’economia italiana.

Riporto il passaggio cruciale del ragionamento di Arrigo: “Essa è stata raddrizzata facendola ruotare di 65 gradi e a nessuno è venuto in mente di proporre la rotazione complementare di 295 gradi, consistente nel rovesciarla dalla parte opposta sino a portarla con la chiglia per aria per arrivare in seguito all’assetto attuale. Chi lo avesse proposto sarebbe stato sicuramente considerato un folle o un eccentrico e in ogni caso non si sarebbe trattato di un ingegnere. Invece in economia capita che soluzioni altrettanto folli siano proposte, spesso proprio da economisti, e purtroppo prese sul serio e attuate. Ad esempio, voler portare i bilanci degli stati in pareggio quando il loro Pil reale cade e falcidia gli imponibili è altrettanto folle che voler raddrizzare la Costa passando per la sua chiglia per aria. Purtroppo nel caso dei pareggi in recessione si sta cercando di farlo e tutto questo viene chiamato rigore”.

Lo stesso criterio che ci ha portato alla rovina in questa crisi, amplificandone gli effetti, è lo stesso criterio che ci hanno ripetuto nei fatidici anni ‘90, quando si procedeva alla costruzione di questa Unione europea, con una moneta unica che vincolasse le economie ma senza unione politica. E lo stesso criterio che ci ha rovinato economicamente (non solo noi, ma tutta l’Europa) è lo stesso che vogliono continuare ad applicare: “più Europa”, il che vuol dire semplicemente, nei progetti degli eurocrati, sempre maggiori limitazioni per la sovranità degli stati.

E se quella è la direzione sbagliata, quella opposta (almeno in questo caso) è quella giusta: occorre il recupero delle sovranità nazionali, a cominciare da quella monetaria. Occorre quindi il ripristino di una moneta nazionale, che tramite una svalutazione (nel caso dell’Italia) si ponga al servizio dell’economia. Il contrario, nella sua immoralità, lo abbiamo sotto gli occhi: un’economia al servizio della moneta, al servizio del debito creato dalla moneta e dai suoi interessi. Un’economia che va in rovina per tentare disperatamente di salvare la moneta unica e il sistema finanziario e bancario a essa connessa.

A tal proposito, mi pare utile dare risposta alle osservazioni fatte dal lettore Giuseppe Crippa, come commento al mio ultimo articolo. Ritengo utile rispondervi, poiché ritengo che quelle osservazioni siano nella testa di tanti lettori e di tanti italiani. Anzitutto si impone una riflessione sul rapporto tra svalutazione della moneta e inflazione. Tale rapporto non è mai uno a uno. Una svalutazione della moneta si tramuta in un’inflazione interna a seconda delle materie importate e del loro utilizzo nel mercato interno.

Il caso tipico che viene citato, nella situazione italiana, è quello della benzina, poiché l’Italia non possiede giacimenti di petrolio ed è costretta a comprarlo dall’estero, pagandolo in dollari. Con una moneta svalutata del 20%, questo è il ragionamento, il costo del petrolio sarebbe superiore del 20%.

Ma, questa è la prima osservazione, noi non consumiamo petrolio, consumiamo invece benzina o gasolio: cioè, nel prezzo del carburante è incluso il costo di raffinazione, che è un costo italiano, non svalutato. Nel caso dei carburanti, poi, la gran parte del costo è dovuto alle famigerate accise, cioè da tasse interne. In altre parole, a una svalutazione del 20%, potrebbe corrispondere un aumento dei prezzi alla pompa del 4%. E lo stesso sarebbe per tutte le altre materie prime, che vengono importate e lavorate in Italia.

Al contrario, gli effetti di una svalutazione del 20%, avrebbe un conseguente aumento dei profitti del 20% (oppure una maggiore capacità di scontare i prezzi, e quindi di battere la concorrenza). In altre parole, l’impatto di una qualsiasi svalutazione della moneta nazionale (del 20% o altro) avrebbe conseguenze limitate sul mercato interno, ma avrebbe pieno beneficio sulle esportazioni. Questo è il motivo fondamentale per cui, secondo gli studi citati nel mio articolo, Italia e Spagna avrebbero un gran beneficio a tornare a una valuta nazionale. E se lo dice la Ecole des Hautes Etudes di Parigi, c’è da credergli.

Inoltre, la storia, che è sempre maestra, già ci ha mostrato esempi chiari di quanto qui esposto. Quando nel 1992 ci fu l’attacco speculativo di Soros alla lira, fummo costretti a uscire temporaneamente dallo Sme e a svalutare del 20%. Ma la nostra inflazione, tra il ‘92 e il ‘93, passò dal 5% al 4%: addirittura diminuì. E lo stesso accadde alla nascita dell’euro, con la moneta unica che si svalutò di circa il 30% rispetto al dollaro: ma noi non abbiamo visto un’inflazione del 30%. Quindi queste sono le ragioni che dovrebbero cancellare ogni incertezza sul ritorno a una moneta nazionale: sarebbe per noi conveniente perché lo dicono autorevoli studi, perché ce lo dice il buon senso, perché ce lo mostra la storia con i suoi fatti.

Del resto, sarebbe logico che un’azienda italiana, dovendo competere con una pari azienda tedesca, usufruisse del vantaggio di una moneta che si svaluta progressivamente: infatti, un’azienda italiana avrebbe a che fare con le complicazioni e con le inefficienze tipiche della burocrazia italiana, quindi sarebbe ben giusto e ovvio che venisse compensata dal vivere in un ambiente più complicato dal fatto di utilizzare una moneta vantaggiosa per il suo business.

E non varrebbe la considerazione che, invece di utilizzare una moneta propria, la burocrazia italiana dovrebbe essere costretta a cambiare e rendersi efficiente. Questo infatti non risolverebbe l’ambiguità di fondo del modello “a esportazioni” oggi dominante: se tutti, per crescere, devono esportare, dove andrà ad esportare il mondo intero, sulla Luna? O su Marte? La verità è che c’è molto da cambiare nella struttura dell’economia e della finanza internazionale. Ma in attesa di questo, occorre intanto poter difendere l’industria e la manifattura italiana, senza farsi schiacciare da una moneta che non è al servizio della nostra economia reale.

Di questo le imprese si sono accorte ormai già da tempo. E sempre più si diffondono sistemi di Moneta complementare. E questa è l’unica strada per un ripresa duratura e una piena occupazione: poter disporre di una moneta che sia al servizio dell’economia reale.

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