Allora, è scoppiata la pace tra la Fiat e la Fiom-Cgil? Oppure dobbiamo aspettarci una nuova, imminente offensiva di Torino? La vicenda che contrappone la prima industria e il primo sindacato nazionali assomiglia un po’ a quanto sta accadendo a livello planetario con il caso Siria: ogni spiraglio di pace dopo pochi giorni (o addirittura poche ore) d’improvviso si chiude così come si era aperto, lasciando spazio a squarci neri, habitat ideale per i falchi decisi a dar battaglia.



Così lunedì scorso il Lingotto ha dichiarato che accetterà (e che cosa altro poteva fare, realisticamente?) la sentenza della Consulta e, dunque, i rappresentanti della Cgil-Fiom riacquisteranno il diritto di tornare in fabbrica pur non avendo firmato con l’azienda gli stessi accordi sottoscritti invece da Cisl e Uil. Questo è un passo verso la normalizzazione delle relazioni industriali, un passo compiuto lo stesso giorno in cui, da Genova, arrivavano segnali più che incoraggianti sullo stesso fronte come testimonia il documento firmato dalla Confindustria e dalla Triplice sindacale unita (e sottolineo unita) per sollecitare al governo interventi a favore delle imprese e del lavoro. Insomma un clima sereno, quasi di amorevoli cinguettii.



Solo che Sergio Marchionne, capo della Fiat, ha messo un twitter avvelenato in calce al comunicato con il quale schiudeva i cancelli alla Fiom. “Ora tocca alla politica disciplinare con una legge la materia della rappresentanza sindacale nelle imprese. Per noi questa è una condicio sine qua non per la continuità stessa dell’impegno industriale Fiat in Italia”. Ci risiamo: il mastino del Lingotto per l’ennesima volta tira fuori una battuta che sa molto di ultimatum o, per dirla proprio tutta, di ricatto: o Governo e Parlamento varano una legge per regolare la materia che sia gradita alla Fiat, o questa se ne va dall’Italia, Paese dove, sempre secondo una dichiarazione dello stesso Marchionne di pochi mesi fa, è impossibile creare e far vivere imprese in grado di competere a livello internazionale.



Quanto c’è di vero questa volta nelle minacce dell’amministratore delegato? E quanto le parole avvelenate messe in chiusura di comunicato sono strumentali? E finalizzate a ottenere che cosa, in concreto? Si può rispondere che è un cocktail con una dose di tutti gli elementi appena detti.

Intanto Marchionne il volante della Fiat lo ha già spostato verso l’estero più di una volta e con assoluta decisione: basta citare, in primo luogo, l’operazione Chrysler e poi gli investimenti in Brasile, Polonia e Serbia. Quindi non è solo un cane che abbaia o una tigre di carta: lui veramente giudica l’Italia un Paese poco a nulla attraente dal punto di vista imprenditoriale e, se appena ne ha l’occasione (o il pretesto, a seconda dei punti di vista) va a cercare lidi più graditi.  

Questa volta, per essere concreti, rischia di essere azzerato Mirafiori, lo stabilimento storico, simbolo del boom della Fiat (e della stessa Italia) degli anni d’oro; e anche Cassino non è in una zona di assoluta sicurezza. Fatte queste considerazioni, il comunicato di lunedì scorso si legge con più chiarezza: la Fiat applica le sentenze e quindi ammette di aver perso una battaglia. Attenzione però: non si tratta di una resa incondizionata. Il tema che pone, quello della definitiva regolamentazione delle relazioni industriali, è di vitale importanza per lei e per tutte le grandi imprese italiane (le poche rimaste), dunque va affrontato subito, deve entrare nell’agenda delle priorità nazionali. E’ bene che il governo lo sappia.

In caso di risposta negativa o, come è più probabile, in caso di non risposta da parte di un governo che basa molta della sua solidità sul non fare, come reagirà la Fiat? Davvero straccerà il tricolore? E’ molto improbabile. Una maggiore presenza estera è scontata e fa parte della logica di qualsiasi multinazionale, però gli interessi della Fiat in Italia sono molteplici, radicati e ramificati. E’ poco credibile che voglia buttare tutto solo per non dover più trattare con il pur ingombrante Maurizio Landini, bellicoso leader della Fiom. Marchionne e i suoi azionisti si difenderanno in tutti i modi. Sbandierando minacciosi bandiere americane, brasiliane o polacche. Ma non solo. Non è per puro capriccio che pochi mesi fa hanno consolidato il loro ruolo di primi azionisti nel Corriere della Sera.