I dati sulla crescita del Pil bocciano l’Italia, unico tra i Paesi del G7 ad avere una prospettiva negativa per il 2013. Le stime parlando di una contrazione dell’1,8%, mentre crescono la Francia (+0,3%), la Germania (+0,7%), la Gran Bretagna (+1,5%) e gli Usa (+1,7%). Come sottolinea il comunicato dell’Ocse, “la crescita ha rallentato in alcune delle grandi economie emergenti, con conseguenze a livello globale nonostante i dati positivi delle economie più avanzate. La crescita nei Paesi ricchi dovrebbe comunque continuare nella seconda metà del 2013 con lo stesso passo tenuto nel secondo trimestre”. Per il professor Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison, “il dato sull’Italia non deve stupire, in quanto è la conseguenza degli scossoni politici che il nostro Paese ha subito nel 2011, con la conseguente ‘cura da cavallo’ imposta dall’Europa”.



Professor Fortis, come interpreta i dati Ocse sulla crescita dei Paesi del G7 nel 2013?

Gli Usa confermano la loro ripresa avvantaggiata da politiche espansive che l’Europa non si può permettere, e lo stesso Giappone ha avuto una crescita piuttosto consistente. Si tratta di Paesi che hanno attuato politiche opposte a quelle europee, più orientate alla crescita e alle politiche monetarie espansive anziché al rigore. Nell’Ue il quadro è ancora molto depresso, la Francia per esempio ha avuto un 2012 a crescita zero e la previsione per il 2013 è un +0,3. E’ vero che i trimestri stanno migliorando con il passare del tempo, ma il 2013 nel complesso sarà un anno ancora molto difficile per l’insieme dell’Eurozona.



Quali sono le prospettive di ripresa in particolare per l’Italia?

L’Italia rimane l’unico Paese del G7 con un tasso di crescita negativo anche nel 2013, per una serie di motivi tra cui il fatto siamo gli unici ad avere messo in atto una politica così restrittiva e di rigore. Solo la Spagna e alcuni Paesi periferici dell’Europa hanno adottato misure economiche simili a quelle decise dal governo italiano nel 2012 per superare la diffidenza dei mercati e uscire rapidamente dalla procedura d’infrazione. A causa dell’elevato debito pubblico, l’Italia è guardata come una sorvegliata speciale. A ciò si aggiunge un fatto strutturale, che riguarda tutti i Paesi ma in particolare quelli europei.



A che cosa si riferisce?

Al fatto che la ripresa non sta producendo nuova occupazione. Lunedì il Financial Times ha dedicato ampio spazio al fatto che i dati sull’occupazione tedesca sono in gran parte “drogati” dall’enorme numero di lavoratori part time. Si tratta dunque di persone che risultano occupate, ma che stanno poi facendo dei “lavoretti”, e che in Italia per esempio non comparirebbero come forza lavoro perché certe mansioni sono svolte in nero. Analizzando nel dettaglio i dati dell’Economic Outlook dell’Ocse, emerge che il tasso di disoccupazione del 2013 e del 2014 è stato pari al 12,5% in Italia 12,5% e all’11% in Francia. Nel 2007 l’Italia aveva un tasso di disoccupazione più basso della stessa Germania, mentre oggi la nostra situazione è ampiamente peggiorata proprio per le conseguenze della cura dimagrante cui siamo stati sottoposti insieme alla Spagna.

 

Quindi vuole dire che le cause della mancata crescita dell’Italia vanno ricercate nel modo in cui è stata affrontata la crisi?

Sì. Il 2011 in particolare è stato un anno drammatico per quanto riguarda la fiducia delle famiglie nel nostro Paese. Nel 2011 i consumi erano ritornati ai livelli del 2008, ma sono poi crollati perché la credibilità italiana di fronte al resto del mondo ha subito dei gravi colpi per ragioni politiche che in sé nulla avevano a che fare con l’economia. Per recuperare quella credibilità è stato chiamato un tecnico che ha applicato rigorosamente quella ricetta europea che era sbagliata in quanto tale. Intanto nel solo mese di luglio i prestiti delle banche ad aziende non finanziarie in Italia sono scesi di 19,4 miliardi di euro.

 

Per quale motivo le banche continuano a non fare credito?

Le banche italiane, pur con gestioni criticabili, non hanno mai avuto dei dissesti di bilancio come è avvenuto nel 2007-2008 negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Germania. I nostri istituti di credito erano solidi e non erano esposti né nei Pigs (un acronimo per Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna, Ndr) né attraverso i titoli tossici.

 

Come hanno fatto quindi le banche italiane a ridursi nelle condizioni in cui si trovano oggi?

Da un lato la crisi prolungata ha fatto lievitare le sofferenze. In diversi casi inoltre le banche si sono avventurate in terreni impropri andando in cerca di profitti anche nel campo immobiliare e finendo così nel tempo per mostrare la corda. Le banche territoriali in particolare si trovano oggi sotto la lente della Banca d’Italia, in quanto è emersa una serie di bilanci che destano preoccupazione. Tutte queste sofferenze si scontrano con l’esigenza di mantenere e difendere il risparmio.

 

Per quali motivi?

Le banche prestano i soldi dei risparmiatori, e non possono quindi farlo in modo avventato. In parte purtroppo ciò è avvenuto, e oggi con la crisi se un imprenditore chiede un prestito per pagare i suoi operai si vede contrapporre un rifiuto per questo motivo. Chi ha progetti di investimento, per esempio un’impresa che vuole aprire uno stabilimento, ottiene ancora credito. A esserne escluse sono piuttosto le Pmi in difficoltà o le aziende che attendono a loro volta di riscuotere i crediti dello Stato ma non hanno i soldi per pagare dipendenti e materie prime. C’è quindi un circolo vizioso che non riguarda le banche in quanto tali, ma piuttosto la strategia di rilancio del nostro Paese.

 

(Pietro Vernizzi)