Per quasi tutto il giorno mercati in ribasso ieri in Europa, con l’Italia che conosceva un’altra giornata in profondo rosso. Lo spread, in compenso, non ha subito scossoni enormi, un aumento di 4 punti base attorno all’ora di pranzo rispetto al valore dell’apertura di contrattazioni ma qualcosa faceva intuire strani movimenti sui mercati: il differenziale tra Bonos spagnolo e Bund, contemporaneamente, scendeva di 2 punti base, salvo tornare sui livelli del mattino. Niente di ecclatante ma qualcosa che dovrebbe farci capire come i mirini degli investitori siano fissi su due obiettivi: la Siria e l’Italia. 



L’opzione bellica in Medio Oriente, infatti, sta facendo muovere i mercati in maniera totalmente irrazionale rispetto ai fondamentali macro: la “rotazione di guerra” non sta sortendo l’effetto sperato ma rispetto alla giornata di martedì, ieri il formale via libera del Congresso all’attacco militare ha fatto in modo che il rendimento del decennale Usa si allontanasse da quota 3%, la soglia psicologica che potrebbe determinare quasi in toto le scelte della Fed in vista della riunione del 17 e 18 settembre. Il denaro cerca una collocazione che non trova, si muove nervosamente, sembra una mosca chiusa dentro un bicchiere: va a destra e sbatte, va a sinistra e sbatte. 



I mercati asiatici, tolta l’India grazie alle speculazioni su nuovi, drastici interventi della Banca centrale, sono ormai in profondo rosso, Indonesia in testa. L’America trattiene il fiato: petrolio e oro restano poco mossi a metà dei valori del rally innescato dal primo intervento di John Kerry, l’obbligazionario sovrano viaggiava al 2,87% di rendimento sul benchmark decennale e le preoccupazioni montavano soprattutto rispetto ai riflessi che quelle fluttuazioni potranno avere non solo sui mutui immobiliati ma anche sulle emissioni di bonds corporate, Verazon ne sa qualcosa. L’Europa, come sempre, non sa quale direzione prendere: il Bund a dieci anni restava sopra quota 1,90% di rendimento, sintomo di perdita di appeal temporanea per i beni rifugio (ma l’attacco siriano non potrà che ribaltare questo trend) e di tensione in vista delle elezioni del 22 settembre. 



Poi, l’Italia. Ieri il barometro del governo diceva nuovamente tempesta, con il Pdl pronto a rompere e il Pd spaccato dall’offensiva di Matteo Renzi nella disputa per la leadership. Non è una novità per il nostro Paese e gli investitori lo sanno, ci conoscono ma quel segnale di inversione dei differenziali nostro e spagnolo rispetto al Bund mi lascia interdetto. Per una questione molto semplice. Al netto dei dati trionfalistici sui dati macro che spacciano i vari indici Pmi, io vedo una netta correlazione tra la situazione attuale e quella di inizio 2011: all’epoca, l’ottimismo regnava sovrano ma ci volle poco prima che ci venisse tolto il tappeto rosso da sotto i piedi e scivolassimo in un recessione netta. Oggi la Spagna è diventata il vero benchmark della cosiddetta ripresa dei Paesi periferici: non la Grecia, il Portogallo o l’Italia. Ogni minima variazione macro in Spagna, come ad esempio l’aumento degli occupati nel settore turistico, dato ovviamente stagionalizzato e che non può essere visto come elemento tendenziale, fa gridare al miracolo. 

Ma di miracoli non ce ne sono in atto, tantomeno in Spagna. È inutile gioire per una dato Pmi frazionalmente sopra quota 50, quando il tasso di disoccupazione − sia totale che giovanile − continua a salire a livelli record, i consumi sono stagnanti e il credito bloccato. E, stando alla logica keynesiana, questi ultimi due dati sono le forze trainanti della crescita economica. Ma non basta. Ci sono due dati che dimostrano, senza possibilità di discussione, come la Spagna sia su una strada pericolosissima. 

Il primo, i prezzi degli immobili sono scesi del 36,5% dai massimi del boom zapateriano, un record negativo assoluto e sono calati del 15,7% in termini reali solo nel 2012. Lo scorso trimestre il calo è stato di un ulteriore 6,5%, quindi è più che probabile che il trend proseguirà per tutto il resto dell’anno. Addirittura, Standard&Poor’s prevede un calo di un’altro 13% nel 2014. L’altra faccia della medaglia di questa situazione, strettamente correlate tra loro, è quella del settore bancario, soprattutto delle sofferenze salite a giugno al record assoluto dell’11,6%, il peggior dato da cinquant’anni a questa parte. Di più, i prestiti alle aziende non finanziarie nel mese di luglio sono scesi dell’1,3%, mentre da inizio anno il calo è stato del 10%, stando a dati della Bce. Un risultato ben peggiore della contrazione mensile registrata in Grecia e Portogallo, entrambe pari allo 0,9%. Non ci vuole Milton Friedman per capire che con il mercato immobiliare destinato a restare sotto pressione addirittura anche l’anno prossimo, il numero delle sofferenze non potrà che continuare a peggiorare. Al netto del fatto che la Spagna ha già ricevuto 41 miliardi di euro dall’Ue per ricapitalizzare le sue banche, oggi combinate peggio di quando si decise per il salvataggio. 

Ora, calcolando che in base ai demenziali criteri valutativi dell’Eba, le banche spagnole non scontano in sede di stress test il conteggio degli incagli come accade a quelle italiane, la situazione degli istituti iberici è ben peggiore anche di come appare. Come è possibile, quindi, che i mercati scontino meno di 10 punti di spread tra noi e la Spagna? L’Italia non sta certamente bene, i dati macro parlano chiaro ma nessuno, in buona fede, può dire che le banche spagnole stiano meglio delle nostre o che la situazione occupazionale sia migliore a Madrid che a Milano. 

Il mio timore, quindi, è che l’Italia sconti qualcos’altro, ovvero l’appetito che si genera in chi non aspetta altro che un peggioramento della crisi per mangiarsi in un sol boccone i pochi gioielli che ancora il nostro settore industriale e bancario offre. Nessuno punta a colonizzare la Spagna, questo è chiaro, mentre Eni, Enel, Finmeccanica, oltre alle banche sono da tempo nei desiderata stranieri. Desideri che, in caso di tracollo politico e conseguente attacco speculativo, diverranno a prezzi di saldo, visto che saremo costretti a chiedere aiuto a Ue e Fmi. 

Ricordo a tutti che da qui a fine anno, il Tesoro deve collocare sul mercato 116 miliardi di euro di debito: a che prezzo, se salta il banco del governo e si scatena il far west politico, epilogo più che certo stante le fibrillazioni all’interno dei due principali partiti? Non lo dico io, lo ha scritto nero su bianco la banca d’affari giapponese Nomura in un report nel quale si parlava chiaramente di due “risk events” per l’Europa a ottobre: la revisione del processo di riforme della troika in Grecia e le tensioni politiche in Italia legate alla vicenda della decadenza di Silvio Berlusconi da senatore. 

Il report dice chiaramente che se la troika non darà luce verde a quanto fatto finora dal governo ellenico, “il rischio di una nuova ristrutturazione del debito tornerà sul tavolo e farà crescere la possibilità di un epilogo simile per Cipro e Portogallo”. A quel punto, sarà contagio immediato per tutti i Paesi periferici, con il Bund che verrà comprato con il badile sui mercati. Temo che ormai la crisi di governo ci sarà, quindi prepariamoci a scossoni. La contemporaneità della crisi siriana e dei mercati emergenti, però, potrebbe davvero aprire un periodo di turbolenza al buio. Chi guiderà il Paese tra quei marosi? I mercati. E non saranno animati da spirito di servizio per il Paese e il bene comune.