Un referendum per abrogare il Fiscal compact. È l’ipotesi che l’associazione Viaggiatori in movimento intende verificare con i migliori giuristi del Paese. Lo farà con un incontro pubblico che si terrà a Roma domani, venerdì 10 gennaio, presso l’Avvocatura dello Stato. «Non ci muoviamo fino a quando avremo verificato la percorribilità di questa via», assicura Gustavo Piga, docente di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma ed esponente di spicco dell’Associazione che raccoglie imprenditori, dirigenti della Pubblica amministrazione, studenti, pensionati, giovani di sinistra e di destra. «Vogliamo lanciare questo dibattito nel Paese: se avrà successo presto si tramuterà in una raccolta di firme nazionale. Qualcuno ci ha detto: attenzione, se il progetto passa i mercati crolleranno. Più crollati di così!”.
“Sì all’euro dell’Europa unita, no al Fiscal compact”. L’associazione Viaggiatori in movimento si sta preparando a raccogliere le firme per indire un referendum. Innanzitutto chi fa parte dell’associazione?
Viaggiatori in Movimento è un’associazione politica che sta cercando di ottenere consensi politici per portare cambiamenti in Europa. Ne fanno parte tanti imprenditori, dirigenti della Pubblica amministrazione, studenti, pensionati, giovani di sinistra o di destra poco importa. Tutta gente che si riconosce in un progetto di Italia basato sulla sostenibilità dei conti pubblici generata dalla crescita. Che ha un’idea chiara sulle riforme vere che questo Paese deve fare, che mirano a rigenerare i germogli della nostra società che sono le piccole imprese e i giovani
Su cosa sarà il referendum?
Ci sono tre “sì” fondamentali. Il primo “sì”, più roboante, è per l’Europa. Intesa come progetto culturale, di avvicinamento di culture diverse, e in seconda battuta come soggetto politico che partecipa al tavolo delle grandi decisioni con Stati Uniti e Cina. Chi dice “no” all’Europa infatti dice “no” a un progetto culturale, di pace, di crescita. E noi rifiutiamo questa posizione, sia per ragioni culturali che per ragioni politiche.
Qual è il secondo?
Il secondo “sì” che vogliamo affermare in maniera altrettanto convinta è all’euro. Ovviamente è un “sì” sofferto, perché l’euro viene da molti considerato il responsabile di questa crisi. Secondo noi, invece è meramente il capro espiatorio di una pessima gestione della politica economica all’interno dell’area valutaria comune. Non pensiamo che la soluzione a questa crisi sia l’abbandono dell’euro.
Sta dicendo che l’euro va bene così?
Dico che l’euro paradossalmente sta giocando un ruolo vitale perché ci obbliga a fare qualcosa che in sua assenza non avremmo mai fatto, cioè discutere tra di noi. C’è una cosa da aggiungere.
Quale?
Ricordiamoci cosa accadde nel 1993. Immediatamente dopo l’uscita dal serpente monetario europeo, il governo Amato si sentì in dovere di fare la più grande manovra di austerità possibile per convincere i mercati. Se usciamo dall’euro non sarà, come molti auspicano, un momento di ripresa dell’export. All’uscita seguirebbe una manovra talmente austera il cui effetto sarebbe comunque recessivo. In pratica, la recessione “stupida” in cui ci troviamo continuerà se dovessimo uscire dall’euro. La colpa infatti non è dell’euro ma delle politiche fiscali.
In che senso?
In un momento di difficoltà non devono essere restrittive: devono essere restrittive quando il sole splende e l’economia va bene; è il momento in cui la formica deve mettere da parte per l’inverno che verrà.
Quando l’Italia si è comportata da saggia formica?
Certo, a metà degli anni 2000 non abbiamo fatto la formica, abbiamo fatto la cicala. Questa in parte è stata colpa nostra, ma in parte dell’Europa che non ha vigilato o ha fatto finta di niente. Ma se qualcuno non è stato “formica” in estate, alla famosa cicala d’inverno non si dice “crepa!”. Le si dice: adesso ti aiuto e quando tornerà il sereno non sbaglieremo più, intanto mettiti a fare veramente la formica. Quello di cui abbiamo bisogno è una politica fiscale espansiva.
È fattibile?
Sì, perché aiuta anche i tedeschi. Perché se decidono di consumare di più, non solo salvano il nostro export e ci aiutano, ma aiutano loro stessi, permettendo agli operai tedeschi di acquistare con il nostro export le vacanze in Grecia, o sul lago di Garda, piuttosto che i nostri frigoriferi. Come vede, c’è un interesse comune, riesce a rappresentare non solo l’interesse dei singoli ma quello del continente nel suo complesso. E qui arriviamo al terzo punto.
Prego.
La normativa attuale, a partire dal 2015, ci impedirà di fare quelle politiche fiscali di cui abbiamo bisogno in questa fase di recessione. È come un pilota automatico che porta l’aereo dritto contro la montagna, perché ci chiede di ridurre di 80 miliardi circa, il 5% del nostro Pil, ogni anno il nostro debito pubblico. Significa che dobbiamo fare privatizzazioni o vendere immobili. Ma siccome di privatizzazioni da fare e di immobili da vendere ne abbiamo pochissimi, quegli 80 miliardi verrebbero recuperati con manovre restrittive: cioè maggiori tasse e minore spesa. Ma 80 miliardi all’anno di manovre restrittive non è una cosa pensabile. Di questo passo ben presto arriveremo a uno scontro globale che ci porterà ad abbandonare il progetto. Ci siamo andati vicino nel 2013, quando l’enfasi europea è passata dall’attenzione al deficit a quella sul debito. Lo stesso Saccomanni ha visto la manovra della legge di stabilità bloccata per alcune settimane perché il nostro debito non stava andando nella traiettoria giusta. In più..
In più?
Questa austerità paradossalmente non solo sta bloccando la crescita, ma mina alla radice un’altra cosa che sta tanto a cuore all’Europa.
Cioè?
La sostenibilità dei conti pubblici. Il nostro debito in questo momento di austerità non è sceso, anzi è salito drammaticamente. E questo porta al terzo “sì” della mia associazione.
Di cosa si tratta?
Al cuore del progetto europeo ci dev’essere la sostenibilità dei conti pubblici, esattamente come previsto dalla Costituzione italiana. E noi la sostenibilità del debito pubblico – che in questo momento non stiamo raggiungendo – la sposiamo in pieno. Il problema è come si fa a ottenere la sostenibilità del debito. E qui arriva il nostro primo “no”.
“No” a che cosa?
“No” alla modalità con cui stiamo cercando di raggiungere questa sostenibilità, che è quella del Fiscal compact. Il Fiscal compact scritto dall’Europa dice che la sostenibilità del debito pubblico che abbiamo inserito nella Costituzione, con una legge ordinaria del 2012 che importa i regolamenti europei, la dobbiamo fare riducendo appunto il debito del 5% del Pil ogni anno per 20 anni. Ecco, non è la norma costituzionale della sostenibilità del debito che ci preoccupa, ma il modo in cui questa sostenibilità viene definita a livello europeo. Noi rifiutiamo quell’interpretazione, perché secondo noi genera quel pilota automatico di cui parlavo poco fa.
Come dev’essere intesa, secondo voi, la sostenibilità del debito?
Vogliamo tornare a una definizione di sostenibilità del debito pubblico così com’è prevista dalla nostra Costituzione, che sia capace cioè di generare vera stabilità dei conti tramite crescita economica e manovre che favoriscano quella crescita che rende il debitore Italia credibile di fronte a chi gli presta quotidianamente dei soldi. Perché noi sappiamo che un debitore è credibile solo quando cresce. Come una banca presta denaro a un’azienda sana, così un creditore presta a uno Stato che è capace di generare risorse per ripagare il debito. Noi invece stiamo distruggendo risorse e ne abbiamo sempre meno per ripagare un debito che cresce sempre di più.
Qual è la vostra proposta?
Vogliamo eliminare queste clausole con un referendum abrogativo. C’è chi dice: è vero che non state facendo un referendum sulla Costituzione, che non si potrebbe fare, ma lo fate su una legge ordinaria che però proviene da un trattato internazionale e la Costituzione dice che sui trattati internazionali non si possono fare referendum. Piccolo problema.
A cosa si riferisce?
Nella nostra opinione il Fiscal compact non deriva da un trattato internazionale, non ha valenza di trattato.
Perché?
Perché non è stato sottoscritto dalla Repubblica Ceca e dalla Gran Bretagna, quindi è semplicemente un accordo intergovernativo e, come tale, non ha la forza di un trattato. Pertanto la legge ordinaria può essere sottoposta al voto. Ovviamente sappiamo di muoverci su un terreno minato. Ecco perché, prima di lanciare un’iniziativa referendaria vogliamo valutare bene con i migliori giuristi che ci sono in Italia se questa legge può essere ammessa al referendum con buona probabilità quando verrà portata all’attenzione della Corte Costituzionale e come va eventualmente strutturato. Non ci muoviamo quindi fino a quando abbiamo verificato la percorribilità di questa via.
Se non risultasse percorribile?
Troveremo altri strumenti di lotta. Crediamo tuttavia che ci siano tutte le premesse per avviare un percorso di questo tipo. Crediamo anche che siano queste le premesse giuste per far tornare il progetto europeo nei suoi giusti binari. Vogliamo lanciare questo dibattito nel Paese: se avrà successo presto si tramuterà in una raccolta di firme nazionale. Qualcuno ci ha detto: attenzione, se il progetto passa i mercati crolleranno.
Voi cosa rispondete?
Più crollati di così! In Italia la situazione è praticamente identica a quando lo spread era a 400 con un’inflazione più alta. In questo momento l’Italia prende a prestito a tassi più alti della Germania. Perché i mercati non credono a questa Unione monetaria. Noi diciamo: guardate cosa è successo in Giappone quando è stato annunciato che per uscire dalla recessione si sarebbe fatta più politica monetaria espansiva e investimenti pubblici con politica fiscale espansiva: i mercati hanno celebrato questa scelta. Il mercato dei bond giapponesi ha esultato perché c’era bisogno dell’ingresso, raro ma essenziale, della domanda pubblica, fino a quando non fosse tornata la fiducia. I mercati si nutrono di crescita ed è la crescita che nutre la stabilità dei conti pubblici.
Se il risultato fosse negativo?
Se il referendum dovesse dire: noi il Fiscal compact ce lo vogliamo tenere, sarebbe comunque un apprezzabilissimo momento di democrazia, che non sentiremmo come una sconfitta. Certo che se dovessero vincere i no abrogazionisti, allora il primo ministro italiano potrebbe andare a Bruxelles finalmente con tutt’altra forza a dialogare con i tedeschi.