Il governo di Sua Maestà britannica – guidato dal conservatore Cameron e bisognoso di sterline per il suo budget – ha privatizzato tre mesi fa le Poste Reali, fondate quasi 500 anni fa. A fine estate, il ministro dell’Industria Vince Cable aveva annunciato di voler collocare in Borsa al minimo il 33% di un’azienda – fino ad allora totalmente statale – valutata fra 2,5 e 3,3 miliardi di sterline (fino a 4 miliardi di euro). La fortissima domanda ha consentito, a inizio ottobre, di collocare il 62% al prezzo massimo previsto (330 pence). Mentre il Tesoro britannico ha incassato circa 1,8 miliardi di sterline, il 10% del capitale è stato collocato in offerta iniziale a condizioni agevolate a circa 150mila dipendenti.



La forte domanda (700mila richieste, per un quantitativo di titoli sette volte quello richiesto) non ha tuttavia spinto il venditore a sfondare il tetto della “forchetta”: anche se gli analisti, alla vigilia dell’operazione, stimavano concordemente un valore più alto. L’esito è stato che il prezzo dell’azione in Borsa è subito balzato del 40% e tutt’oggi si mantiene molto al di sopra del collocamento (583 pence). Un trend che ha spinto l’opposizione parlamentare di Cameron a ventilare addirittura un’inchiesta su una possibile sottovalutazione “colposa” di Royal Mail, ai danni del cittadino-contribuente. Lo Stato britannico resta in ogni caso primo e saldo azionista della società (e quindi il patrimonio pubblico ha beneficiato del rialzo) e mantiene alcuni poteri speciali legati al servizio postale pubblico.



Su questo sfondo ancora quasi di cronaca, non è sorprendente che il governo Letta abbia messo in cantiere un piano di privatizzazione delle Poste Italiane almeno formalmente in fotocopia a quello londinese. Su queste pagine avevamo già previsto questo sviluppo e avevamo riflettuto in termini problematici. Avevamo segnalato la scelta recente del governo tedesco, che ha messo mano a un dossier più avvicinabile di quello britannico a quello italiano: Deutsche Post – come Poste Italiane -ha infatti controllato fino al 2008 un’importante divisione bancaria, un business che invece Royal Mail non ha mai gestito. E proprio nei giorni bollenti del crac Lehman, Postbank è stata venduta in blocco a Deutsche Bank, con il fine di rafforzarla sia sul piano strategico (rete domestica) che patrimoniale. La capogruppo dal canto suo era quotata fin dal 2000, pur mantenendo una maggioranza di blocco alla Kfw, la Cassa depositi e prestiti tedesca.



Il risultato dell’Ipo Royal Mail sembra fugare ogni dubbio sull’opportunità di seguire il “pattern” dall’alto: prima quotare la capogruppo (senza perdere inizialmente un controllo pubblico sostanziale), poi pensare a valorizzare Bancoposta, non necessariamente con un nuovo “listing”, ma con eventuali opzioni strategiche.

Alcuni interrogativi tuttavia, restano. È vero che il 2014 si è aperto con prospettive positive per i mercati azionari, che mostrano un evidente appetito di collocamenti iniziali (da Twitter a Wall Street a Moncler a Piazza Affari). Gli investitori si mostrano comunque molto selettivi: con posizionamenti diversi Twitter, Moncler e la stessa Royal Mail hanno vinto imponendosi come brand di grande richiamo, al di là delle cifre messe sul tappeto. Poste Italiane, sotto la guida di Corrado Passera prima e di Massimo Sarmi fino a oggi, ha registrato progressi sostanziali in efficienza, qualità del servizio, immagine e bilancio: ma non è certo un gigante globale del “mail and deliver” come Deustche Post o una solida “produttrice di utili” come Royal Mail. E poi la “polpa” aziendale di Poste rimane Bancoposta, fortissimo produttore-collocatore di servizi finanziari assicurativi retail: attività “di mercato”, innervata tuttavia nei ricchi circuiti della finanza parapubblica (Cassa depositi e prestiti).

Ancora: a Londra e a Berlino il ruolo dello Stato come azionista di blocco di una public company è vissuto addirittura come una garanzia, esattamente come la partecipazione dei dipendenti si muove su schemi collaudati. A Roma il caso Eni – più ancora di quello Enel – ha dato buoni risultati, grazie alla tradizionale autonomia del management, tanto che il collocamento progressivo della petrolifera statale italiana è stata probabilmente la sola privatizzazione italiana autenticamente di successo. Enel lo fu certamente per il venditore e in parte per l’azienda, ma non per i due milioni di italiani che sottoscrissero le azioni nel favoloso anno 2000. E i “postini” italiani – una delle ultime roccaforti del lavoro dipendente sindacalizzato nel Paese – che azionisti saranno, e da chi saranno finanziati?

La questione finale attiene comunque sempre alla domanda di mercato. Il giacimento di ricchezza finanziaria delle famiglie e il sistema bancario nazionale (comprese le ramificazioni nell’asset management) hanno dato prova di forte tenuta anche negli spazi di manovra ristretti e difficili degli ultimi anni. Il sistema bancario globale rimane a caccia di bocconi da “masticare”, certamente memore delle privatizzazioni “in stile Britannia” degli anni ’90. Operazioni che tuttavia sarà impossibile realizzare “tel quel” nel 2014, dopo che perfino la Corte dei conti italiana ha bocciato vere e proprie svendite come l’Ipo integrale di Telecom: un disastro per tutti (finanze pubbliche, risparmiatori privati, sviluppo dell’azienda, dipendenti, ecc.).

Sarà interessante osservare come i vari attori e ingredienti faranno maturare il dossier. Matteo Renzi, leader del Pd, al debutto come policy-maker, si è mostrato finora sospettoso verso privatizzazioni “per far cassa”. Però a conti fatti bisogna riconoscere che l’operazione Royal Mail di cassa ne ha fatta scorrere in modo accettabile, non disprezzabile: sia sul versante pubblico che su quello privato. Downing Street e la vicina City hanno mostrato un buon grado di cooperazione, perché – almeno all’inizio – tutti potessero “vincere”, ripartire. Vedremo se lo schema – almeno ora – è replicabile anche in Italia. 

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