Le guerre non sono mai scoppiate per caso. La casualità non sembra esistere neppure nei fenomeni naturali. Infatti, le ragioni per le prime come per i secondi sono da trovare negli squilibri di un ordine che al massimo della sua tensione si rompe per cercare un nuovo equilibrio. L’energia che si libera in una deflagrazione crea, quindi, le condizioni per il futuro nuovo ordine, sia esso umano o naturale. La durata e l’intensità del passaggio tra il vecchio e il nuovo ordine dipende da molte variabili, spesso non preventivamente prevedibili o calcolabili.
Non si tratta di un’anticipazione del prossimo film sulla fine del mondo e neppure dei segreti di Fatima o delle profezie di Nostradamus. L’analisi che segue non è una previsione, ma solo la constatazione di fatti reali che si stanno velocemente addensando e aggravando. Fatti reali che delineano delle tendenze che, senza variazioni significative, creano le condizioni per una deflagrazione mondiale.
Dopo la fine della Guerra fredda nel 1989, l’Occidente ha tentato di consolidare la propria egemonia mondiale con alcune operazioni degne del dottor Stranamore: la creazione dell’Unione europea, economica e monetaria, dai contorni politici e geografici indefiniti, con il corollario dell’inizio del rinnovarsi delle tensioni geopolitiche intra-europee, particolarmente franco-anglo-tedesche; la disintegrazione dell’esperienza politica della Yugoslavia e del movimento dei Non allineati, con il corollario della prima guerra del Golfo che voleva stabilire una nuova Pax sunnita in Medio Oriente; l’imprudente e parziale cooptazione della Russia post-sovietica nella sfera di influenza occidentale, con il corollario della creazione di gigantesche concentrazioni di ricchezza nelle mani di pochi abili oligarchi e delle mafie; la creazione del mercato mondiale di libero scambio (dal Gatt all’Omc), con il corollario dei primi accordi commerciali con la Cina e dell’inizio della delocalizzazione massiccia della produzione secondo le logiche del massimo profitto; la trasformazione del modello capitalistico occidentale da industriale a finanziario, attraverso la deregolamentazione bancaria, con il corollario della creazione di enormi “bolle” speculative senza alcuna capacità di controllo da parte degli Stati; l’improvvisa e significativa svalutazione del dollaro americano (30%), che per salvare la base industriale nazionale ha installato le basi della recessione in Europa, con il corollario di un lungo periodo di economia di “guerra al terrore” basata sulla creazione di debito pubblico; la progressiva rinazionalizzazione della politica internazionale, con il corollario dell’emergere di nuove autocrazie e teocrazie capitalistiche a scapito del processo di pace e democratizzazione; il progressivo e costante riarmo e proliferazione chimica e nucleare, con il corollario di una quasi guerra mondiale in Siria e Iran; la guerra valutaria innescata dalle svalutazioni mascherate da “stimolo alla crescita” (Quantitative easing) negli Usa, Giappone e Regno Unito, con il corollario nervoso della Cina rischia di creare le basi per inedite alleanze mondiali anti-occidentali.
Non è un caso che Jacques Attali, consigliere permanente di Mitterrand, Sarkozy e Hollande, intervistato il 29 dicembre 2013 da un gruppo di giornalisti sulla francese Radio Europe 1 (ascolta dall’istante di tempo 13:30), ha affermato che il mondo è pronto per un nuovo crac finanziario e per l’esplosione di conflitti armati tra superpotenze.
Attali ha affermato che il crac ci sarà, “ma non credo nel 2014; nel 2016-2017, non sappiamo. Guardate i grafici: il debito pubblico sta crescendo ovunque; ovunque si stampa moneta dal nulla; i veri fattori di crescita da riscontrare nel progresso tecnologico sono disfunzionali”. E saremmo minacciati da una iperinflazione o da una crisi di deflazione? “Da entrambe”, ha risposto Attali, “o da una guerra capace di sostituire l’inflazione come motore di crescita. Conosciamo da sempre questo fenomeno. Un forte conflitto tra Cina e Giappone potrebbe coinvolgere gli Stati Uniti tramite una reazione a catena di alleanze, come nel 1914. Altri potrebbero essere gli scenari, ma questa è l’ipotesi più probabile. Potrebbe accadere qualcosa intorno al Kurdistan, ove interagirebbero tutti i ‘covi di serpi’ della regione… Si deve pensare a tutti gli scenari i quali potrebbero, tramite una reazione a catena di reciproche alleanze, scatenare le grandi potenze e coinvolgerle in una guerra. Questo è possibile. Penso che da qualche parte vi sarà una grande tensione militare che creerà le condizioni per l’affiorare di una sorta di ‘economia di guerra’ capace di ingurgitare il debito pubblico mondiale, poiché il debito pubblico è ridotto soltanto dalla crescita o dalla trasformazione di debito in tasse. E oggi siamo piuttosto nel secondo scenario”.
In costanza delle attuali logiche emergenziali e di austerità dettate dalla cultura economica monetarista, le prospettive sono davvero molto fosche. Per evitare il peggio si deve avere il coraggio, subito, di rompere le logiche perverse del sistema che dagli anni ‘80 hanno determinato la creazione di questi nefasti fattori forieri di guerra. L’economista Giorgio La Malfa (leggi Il Foglio 7 gennaio 2014) sostiene che l’Europa potrebbe giocare un ruolo. Gli europeisti, dichiara La Malfa, Italia per prima, dovrebbero subito distaccarsi dal “credo monetarista”: “La rassegnazione per le sorti dell’economia italiana e per le condizioni della disoccupazione, quella rassegnazione che fa accettare senza reagire una previsione di crescita del reddito di un misero 0,5-1 per cento al massimo nel 2014 e più o meno altrettanto nel 2015. Bisogna scrivere obiettivi più coraggiosi e calcolare quale fabbisogno pubblico possa consentirne il raggiungimento e va comunicato all’Europa questo risultato. Non discusso. Comunicato.Lo stesso Fondo monetario internazionale che, per anni, ha proposto le politiche del rigore si è reso conto che la crisi economica europea era stata accentuata da quelle politiche e, con garbo, ha proposto di rivederne l’impostazione”.
Infatti, proprio nei giorni scorsi, il segretario americano al Tesoro, Jack Lew, ha visitato l’Europa, Berlino, Parigi e Lisbona, per chiedere “più Europa”, ma non nel senso di Berlino e dei burocrati brussellesi che l’immaginano solo come “meno instabilità politica e meno euroscettici e populisti”.. L’amministrazione Obama chiede più Europa perché “Washington ha un bisogno disperato di un partner europeo più capace”. Occorrono unione fiscale e finanziaria più strette, oltre a “politiche macroeconomiche che sostengano di più la domanda”. Se non aumenta “la crescita potenziale europea nel lungo termine”, addio effetti benefici dell’accordo di libero scambio attualmente in via di negoziato tra Usa e Ue.