È uno dei motti più noti al mondo: “The luck of the irish”, la fortuna degli irlandesi. Pare che nacque quasi per scherzo per esorcizzare le tante disgrazie occorse a quel popolo: la grande carestia, l’emigrazione di massa, il colonialismo britannico, la divisione del Paese nel 1921. Bene, questa volta è proprio il caso di dire che gli irlandesi sono stati fortunati, almeno quelli che lavorano al ministero delle Finanze, i quali la settimana scorsa sono riusciti a emettere un bond decennale con domanda tre volte l’offerta e con rendimento ben inserito nel range magico del 3%. Direte voi, quale fortuna, il mercato ha premiato le riforme.



Forse, ma è una fortuna che l’asta si sia tenuta prima che emergesse il fatto che sempre al ministero delle Finanze si sono trovati a dover affrontare una grana non da poco: degli otto documenti ufficiali di corrispondenza tra il vecchio ministro delle Finanze, Brian Lenihan, e i vertici bancari del Paese nel pieno della crisi degli istituti che portò ai salvataggi (agosto 2008-marzo 2009), due sono spariti. Non si trovano più, eppure erano documenti ufficiali, completamente redatti e contenenti particolari di fondamentale importanza, tanto che sul finire dello scorso anno il portavoce del partito nazionalista Sinn Féin, Pearse Doherty, aveva chiesto di poterli visionare. Per tutta risposta, il ministero ha reso noto che due di quegli otto documenti non si trovavano: uno di questi riguardava i contatti tra il governatore della Bank of Ireland, Richard Burrows, e un adviser del Jupiter Group, Noel Corcoran, gruppo che all’epoca voleva acquisire proprio la Bank of Ireland.



Per Doherty, quanto accaduto deve preoccupare e sollevare dubbi su quanti altri eventuali documenti riguardo la crisi bancaria possano essere andati perduti: a stretto giro di posta, attraverso un comunicato inviato alla tv di Stato, RTE, il ministero delle Finanze faceva sapere che «è stata data vita a una ricerca a vastissimo raggio per trovare i documenti e non è chiaro come le versioni originali non siano potute essere localizzate». Strana coincidenza: l’Irlanda sta per dar vita a una commissione d’inchiesta sulla crisi bancaria e spariscono due documenti essenziali, uno dei quali riguardo le conversazioni tra il governatore della Bank of Ireland e il ministro delle Finanze nel periodo in cui il governo decise di iniettare denaro pubblico per salvare le banche. Perché a distanza di quattro anni si è sentito il bisogno di fare due copie differenti dello stesso documento, con quella originale ora misteriosamente sparita?



Non c’è che dire, proprio una fortuna che l’asta si sia tenuta prima che emergesse questa poco edificante notizia, di cui ovviamente in Italia nessuna farà menzione. Irlanda a parte, c’è un problema più ampio e lo spiega plasticamente questo grafico elaborato dalla Fathom Consulting: anche senza che si arrivi alla deflazione piena, con l’attuale tasso d’inflazione le ratio di debito di Portogallo e Italia diventeranno insostenibili.

Questo quanto scritto nello studio: «Anche gli attuali tassi di bassa inflazione pongono rischi esistenziali per l’area della moneta unica. Stando al pricing del mercato, l’inflazione italiana dovrebbe restare al tasso medio dello 0,8% per i prossimi tre anni. Se questo accadrà davvero, il debito italiano entrerà in una traiettoria insostenibile». Calcolando che negli ultimi tre anni, il debito pubblico del nostro Paese è passato dal 119% al 133% attuale grazie alle politiche di austerity che hanno devastato il denominatore della crescita, c’è poco da stare allegri. Ma, come già detto, non vale solo per l’Italia questa dinamica: vale per il Portogallo di cui abbiamo parlato sabato e per la Grecia, tanto che la Fathom nel suo studio si chiede ironicamente come il premier, Antonis Samaris, possa dire che Atene si è lasciata la crisi alle spalle, quando la ratio del debito pubblico sta galoppando verso il 170% del Pil.

Insomma, senza un meccanismo di trasferimento fiscale, l’eurozona automaticamente sarà intrappolata in un loop dove le nazioni in crescita avranno tassi di interessi reali sempre più bassi e tali da alimentare la bolla, così fino a quando questa scoppierà. Di converso, le nazioni in crisi conosceranno tassi di interesse reali sempre più alti che le spingeranno in una deflazione sempre più profonda, aggravandone la crisi. Un processo autoalimentante che diviene più pericoloso in base allo stock di debito con cui si devono fare i conti. Per la Fathom, «questa instabilità insita può rimanere in sonno fino a quando le cose vanno bene, ma alla fine si rivelerà sempre nella sua complessità e pericolosità».

Insomma, o Unione bancaria o Eurobond, per la Fathom non ci sono altre soluzioni per eliminare alla radice gli squilibri insiti nell’unione monetaria. Stranamente, due proposte cui la Germania ha già opposto due netti no. Che fare, quindi? Una politica monetaria ultra-espansiva, incoraggiando le nazioni più forti alla reflazione e nel contempo dando vita a un programma di acquisto obbligazionario non sterilizzato. E sapete quali bonds dovrebbe comprare maggiormente la Bce per la Fathom: Bund. Il tutto per raggiungere l’obiettivo prefissato di inflazione al 2% e quello di creazione di massa monetaria M3 al 4,5%. Ma forse l’idea che potrebbe solleticare Mario Draghi in caso di attacco speculativo sull’obbligazionario sovrano è quella di acquistare bond di tutti i diciotto Stati in base al Pil o alle necessità per ricreare un margine di sicurezza contro la deflazione.

Lo farà? Fino a dieci giorni fa avrei detto no, senza alcun dubbio. Ma con quello che sta per arrivare sui mercati, non lo posso più escludere a priori. Anzi.